L’Unione sbanda per il partito che non c’è

L’analisi di Mancino (Csm): l’esecutivo trova sempre ostacoli

da Roma

Si è partiti per la Reggia di Caserta a cavallo di una fiammante «fase due», si è finiti a bordo di una sfigatissima «cabina di regia». Sgonfiata nel giro di una notte, è stata rimpiazzata da un’«agenda per la crescita», un’«etica motore dello sviluppo», diverse «frenate», «lenzuolate», «coraggio per la svolta», riformismi di incerta natura.
Il linguaggio, dice il filosofo, «determina l’essere». E quando la politica diventa astratta rappresentazione di se stessa, non è un bel segnale. Per dirla con il socialista Villetti, «il governo si trova in un vero e proprio labirinto nel quale rischia di smarrire la strada». Forse non accadrà, perché si naviga a vista. Però «il governo trova continui ostacoli... il Parlamento vive nell’incertezza, gli italiani sono disorientati e giustamente demotivati», avverte il vicepresidente del Csm, Mancino. Utile forse stabilire quali siano i dedali principali del labirinto.
Il partito democratico. Di sicuro molte delle tensioni derivano dall’oggetto oscuro della politica italiana, che ieri Prodi ha ribadito voler essere «una forza riformista chiesta dalla gente» e Franco Marini una scelta ormai obbligata («Non ho nostalgia del grande centro»). Ma è significativo l’imbarazzo di Giuliano Amato, chiamato a inaugurare il corso sul Pd organizzato da «Ulibo», scuola bolognese di formazione politica fondato da un gruppo di professori ulivisti, tra i quali l’Andreatta jr, Filippo. «Come si fa a inaugurare un corso formativo di un partito che non c’è...», ha aperto il cuore Amato. Il tempo di un sospiro: «Ne abbiamo fatte tante, facciamo anche questa...».
Lo scontro Ds-Dl. Finora si sapeva che la nascita del Pd metteva in crisi la Quercia, scoprendola a sinistra. Da quando però D’Alema ci ha posto rimedio, riannodando le fila con Prc, in crisi ci sono andati Fassino e Rutelli. Sintomatica la loro rincorsa concorrente sulle liberalizzazioni, impersonata dai ministri Bersani e Lanzillotta-Gentiloni. Di fronte alla gara di veti e sgambetti, nella quale ha giocato abilmente Prc, Prodi ha tagliato corto, ritenendo oltraggiosa soprattutto l’idea rutelliana di «cabina di regia». Prodi lo ha ribadito ancora ieri che «la responsabilità delle grandi scelte appartiene al premier, è lui a dover fare la sintesi, è un fatto naturale...». Rutelli ha abbassato la coda: «Nessun contrasto con Bersani, le liberalizzazioni sono una priorità per tutti, a Prodi la guida del processo, lui ha il mandato per accelerare...». Sperticate lodi sul vertice di Caserta («l’intesa c’è ed è convincente») hanno completato l’andata a Canossa.
La legge elettorale. Era, e rimane, un corollario per la nascita del Pd, tanto che il comunista Rizzo vede addirittura un dibattito «al limite del ricatto» indirizzato a «escludere le forze critiche». La sinistra radicale vorrebbe concludere prima un accordo nell’Unione, ma il presidente del Senato, il centrista Marini, ricorda che serve soprattutto «un accordo con l’opposizione». A parole si vuole scongiurare il referendum, però sotto sotto alcuni leader (in primis, Veltroni) avrebbero l’interesse a celebrarlo per rimescolare le carte del Pd.
Il riformismo.

«Da Caserta è emersa una chiarissima volontà riformista», ha detto Prodi, mentre il ministro Damiano chiosava sul «tavolo con le parti sociali» e sulla verifica del sistema pensionistico, che non ha il termine del 31 marzo come «tassativo, ma indicativo». Amato a Bologna ha avuto un altro soprassalto di sincerità: «Sono stanco di sentir predicare la riforma delle pensioni come l’ingrediente essenziale del riformismo». Figurarsi gli altri.

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