da Roma
Ruota attorno al numero 158 il dibattito politico del voto al Senato sulle missioni militari allestero. Fondamentale per il centrodestra è che la maggioranza raggiunga quella soglia, pena la caduta del governo Prodi, mentre Piero Fassino, segretario Ds, ribadisce che limportante è «che il provvedimento sia approvato», aggiungendo che i 158 voti erano stati richiesti dal capo dello Stato per la fiducia della settimana scorsa. «In quel voto - ribadisce - cè laccordo del Parlamento sulla nostra politica estera».
Sul dibattito pesa evidentemente lombra del rapimento del giornalista italiano, Daniele Mastrogiacomo, ma tutti si augurano che entro il 27 marzo, giorno in cui si dovrà approvare la legge a Palazzo Madama, la drammatica vicenda sia risolta. Lasciando in piedi il nodo politico: «Fassino oggi smentisce se stesso» sintetizza Renato Schifani (Fi), ricordando le affermazioni del segretario dei Ds fatte il 28 gennaio scorso sul Messaggero, quando affermava che se i voti del centrodestra fossero stati decisivi per approvare il decreto di rifinanziamento sullAfghanistan, si sarebbe aperto un nodo politico con il rischio di far cadere il governo Prodi.
Convinto che non sorgeranno problemi è il senatore a vita Giulio Andreotti, il cui voto la scorsa volta ha contribuito alla crisi del governo Prodi: «Nessuno pensa che i nostri soldati debbano venir via domani mattina dallAfghanistan o che non debbano essere pagati» spiega cercando di sdrammatizzare il voto di fine mese. Anche Pierluigi Castagnetti (Dl) cerca di sottrarre il voto al Senato da eventuali significati «politici» spiegando che «ogni parlamentare vota secondo il suo giudizio personale o di gruppo su ciò che è linteresse nazionale».
Non la pensa così Altero Matteoli, capogruppo al Senato di An: «Non può valere lalibi di un voto amplissimo a favore della missione grazie al consenso del centrodestra. Un governo non autosufficiente in politica estera non avrebbe più titolo a restare in carica». Sulla questione arriva però un pronunciamento importante, quello dei presidenti delle Camere che, pur senza entrare nello scontro politico, invitano a guardare la Costituzione, come dire che «quota 158» non esiste.
Per Franco Marini, «quello che conta è il voto dei senatori, che costituzionalmente è uguale per tutti». In ogni caso, Marini assicura che non verrà «mai» meno alla prassi parlamentare per la quale il presidente del Senato non vota. Nemmeno se il suo voto fosse decisivo per la sopravvivenza del governo».
Da Berlino, gli fa eco il presidente della Camera Fausto Bertinotti che si affida ai regolamenti: «Dal punto di vista istituzionale è evidente che non vi siano ragioni ostative avendo il governo appena ricevuto la fiducia».
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