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L’uomo speciale che ha scoperto di essere normale

La vita fa un po’ male. No, Michael, non è il collo. È il pensiero di essere normali. Schumacher s’è voltato e non ha visto più se stesso. Curva a sinistra, piega e resisti. Curva a destra, ripiega e resisti, ancora. Cos’è questa cosa? Ha sentito un dolore normale e però insopportabile: uno che credeva di non poter mai soffrire s’arrende anche per una fitta impercettibile. No, Michael, non è il collo, di nuovo. C'entra quello che si pensa, quello che si è e quello che si credeva di essere. Schumacher ha creduto di essere immortale, di presentarsi come sempre alla pit-lane prima e sulla griglia di partenza poi. Gas contro il tempo. Gas come anestetico dell'apatia e come antidolorifico dopo lo spavento per Massa. Gas per portarci non un po' più avanti, ma un po' più indietro: a quando tutto andava a mille, con la Ferrari vincente e felice, con l'Italia in cima, con il Cavallino ovunque, sui berretti, sulle giacche, sulle magliette, sulle tazze. Gas per pensare che in fondo il tempo passa solo per alcuni. Gas per illudersi che era tutto un grande gioco, che si partiva per settanta giri al comando e se a un certo punto uno lo passava, tranquilli che comunque c’era lui: una staccata per riprendersi il primo posto e per vincere ancora. Michael ha pensato di tornare perché quelli come lui non sanno che farsene della normalità, la vogliono quando non ce l'hanno, poi non la desiderano più. E allora non basta una casa da sogno, uno stipendio da favola, una famiglia perfetta. Non basta niente se non c’è l’adrenalina, se non c’è un record da umiliare e una barriera dello sport da sbriciolare.
Ci deve pensare per forza la vita a quelli così. Poi qualcuno lo capisce e qualcun altro no. Schumacher l'ha fatto: «Non ce la faccio», ha detto. Gli è costato più dell'addio, più del giorno in cui ha detto «mi ritiro». Perché all'epoca c'era sempre e comunque l'ipotesi di un ritorno, di una nuova tappa, di un ultimo giro. Adesso no. Ora c'è la fine della carriera e l'inizio dell'esistenza. Schumi è Michael, un uomo e non più un umanoide del volante. Difficile ammetterlo, complicato accettarlo. Chi è nato campione capisce prima quando è arrivata la fine. Sente il tocco che non è lo stesso, sente il piede che non spinge più come prima, sente le braccia che tremano. Chi è stato costruito per essere il più forte di tutti i tempi, c’arriva più tardi: s'illude di essere infinito, di prendersi l'eternità. Schumacher, invece, se l'è presa facendo il contrario, ammettendo di essere come noi, umanamente esauribile e sportivamente battibile. Non ha bisogno di chiedere scusa, né di giustificarsi, perché accettando di essere normale, diventa un amico, un fratello, un genitore, qualcuno che ti parla con il cuore in mano e ammette di aver avuto una debolezza. Si perdona, anzi si ama di più uno che si comporta così. E Schumi passa da algido e fiero umanoide restio persino a parlare l'italiano, a campione umano e quindi unico. Perché lo sport si affanna per creare fenomeni con lo stampino, automi in grado di resistere al tempo e ai tempi, agli infortuni e alle crisi psicologiche, mentre adesso il campione che tutti credevamo fosse il prototipo di questa generazione insensibile, si trasforma nel più normale degli sportivi: s'arrende all'età, all'idea di non essere più il migliore e quindi di non servire alla causa più di un Badoer qualunque. Serviva il collo a farglielo capire. Serviva un piccolo acciacco fisico, forse meno grave di quanto immaginiamo. Serviva un crac da qualche parte per gonfiare di dignità un pilota che i successi avevano riempito di gloria, ma forse anche di qualche antipatia di troppo: «Non è simpatico, non sbaglia mai, non trasmette emozioni».
Chiunque l'abbia visto vincere e stravincere per anni e anni le emozioni le ha avute eccome. E le ha riprovate ora. Con quelle parole: «Non ritornerò in pista». Coraggiose, perché bisogna avere le palle per rinunciare a una vagonata di milioni come quella offerta a Michael per il suo ritorno. Audaci, perché bisogna essere capaci di rischiare per lasciar pensare al mondo di non essere più quello che eri. Oneste, perché bisogna essere sinceri per non deludere chi ti vuole bene. Allora la vita fa un po' male sì, ma poi guarisce. Fa sentire veri. È facile dire «addio» sapendo di essere i migliori. È difficile dire «non ce la faccio» sapendo di non esserlo più.

Solo che chi vince facile non è un campione.

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