L’urlo del prato: secessione, ma fedeli a Umberto

Il popolo del Carroccio torna alle origini e chiede punti fermi: "Se non otteniamo ciò che vogliamo meglio alle urne. Da soli". La carica degli 80mila inneggia al fondatore e si affida ancora alla sua guida. Borghezio si commuove: "Patriottismo padano"

L’urlo del prato: secessione, ma fedeli a Umberto

nostro inviato a Pontida (Bergamo)

C’è qualcosa di sacro davvero, in un prato che parla. Tu immagini migliaia di voci. Invece la voce è una sola. C’è una sveglia gigantesca montata su un cartello. Non dice che il tempo è scaduto, ma fissa il timer: un’ora soltanto. I vertici della Lega volevano un segnale dal loro popolo? Il popolo non s’è fatto pregare e la giornata di sole non c’entra. Aspettavano 40mila persone, erano il doppio, hanno intasato le strade e costretto a ritardare l’inizio. In 80mila all’unisono: questa volta è l’ultima. Più che un segno di vicinanza, son venuti a dare un ultimatum. Severino Fogarollo arriva da Padova, viaggia sulla sessantina e s’è vestito un costume da sciamano padano: «Sono 20 anni che vengo qui vestito così. Ma vedi Pontida non va più di moda. Sono venuto a vedere se Bossi porta a casa il tesoro o se mi devo accontentare delle borchie del forziere. Perché se no è meglio la secessione». Bruno ha 45 anni, è bergamasco: «Al Bossi gli abbiamo dato una barcata di voti. Adesso deve fissare paletti precisi, dettare tempi certi e se non ottiene quello che vuole far cadere il governo e portarci al voto, ma da soli. Oppure perderà tutto».
Puoi partire da dove vuoi ad ascoltare. Dal cartello enorme che sotto l’Alberto da Giussano giura: «Siamo incazzati ma ce l’abbiamo sempre più duro». Da un Matteo Salvini stranito, «il sole me lo aspettavo, il pienone no», e se gli chiedi dell’ipotesi di far cadere il governo e andare alle urne da soli sorride: «Se vai sul palco a dirla secondo me hai un futuro. La gente qua ha fretta». Ma anche dall’occhio lucido di Mario Borghezio, puoi partire per ascoltare. Fa il buttadentro al gazebo dei «volontari verdi», è agitato e urla. Lui sì, «me lo aspettavo il patriottismo padano». Dice che questa «resterà nella storia come la Pontida del ritorno alle origini», eccolo «il segnale del prato»: basta «con la Lega dell’aplomb ministeriale, scusa la raffinatezza ma a noi le logiche romane ci fanno cagare». La via giusta, indica SuperMario, «è il ritorno alle origini sollecitato dal popolo che ha interrotto il capo con la parola chiave». Secessione, è la parola. Il prato ci ha saltato su parecchio, interrompendo il capo mentre parlava. Diceva dei costi della politica, il Senatùr, e quelli a scandire: «Se-ces-sio-ne!». E per una volta è stato lui a dover assecondare loro. «Questo è il risultato che si otterrà se si continua a trattare il Nord come un somaro», dice. E poi di nuovo, all’ennesima interruzione: «Se volete la secessione ci si prepari: la Lega verrà incontro ai popoli del Nord che vogliono una pressione molto forte verso il centralismo, e l’avranno. L’altra volta ci ha fermato la magistratura, questa volta saremo più incazzati», avverte. Però insegue, non guida. «Erano anni che non si sentiva la parola secessione» si commuove Borghezio. Ma l’amarcord non c’entra. Ci sono persino meno vichinghi in giro, a dirla tutta, e quelli con le barbe verdi sono anzianotti ormai. E non è nemmeno che i giovani hanno sempre bisogno di un ideale e di un coro da stadio.
No. Qui la questione è l’adesso o mai più, il tutto oppure niente, perché la Lega è al bivio in cui deve capitalizzare le vecchie battaglie prima di indicare un orizzonte nuovo. Oppure autocondannarsi alla ghettizzazione, affondare.
Tornare alle origini per ridarsi fiato, che è anche il senso dell’ideale passaggio di consegne fra Bossi e Maroni, l’Umberto nelle parole di tutti resta il capo incontrastato, eterno come i padri fondatori, ma c’è Bobo negli striscioni e sui volantini, «Maroni presidente del consiglio subito». Secessione e successione, ecco la Pontida numero 21.
Poi, certo, il dietro le quinte è tutta un’altra storia. La guerra di potere interna fra i «maroniani» di cui Maroni nega l’esistenza e il «cerchio magico» con cui però non trova mai la quadra, sul prato passano la moglie dell’Umberto, Manuela Marrone, col figlio Eridano Sirio, dicono sia lui il vero «delfino», altro che Trota. E poi il progetto che i segretari «nazionali» ti sussurrano se giuri sul loro anonimato, cambiare la legge elettorale e andare alle urne da soli, perché «da sola la Lega cresce e si prende pure i voti del Pdl», e intanto il Paese lo consegni al centrosinistra, ma così almeno «le tasse, se davvero sono necessarie, le mettono loro». Chissà se andrà così. Sul palco Bossi prende i fischi quando dice che «se andiamo adesso a elezioni e facciamo cadere Berlusconi, questo è un momento favorevole alla sinistra». Lui risponde: «Lo so, altro che fischi...», però vai a capire se ce l’hanno con Berlusconi, con la sinistra o con te.
Fortuna sono applausi quando dice a Tremonti: «Lascia stare i Comuni, bisogna riscrivere il patto di stabilità». Sul pratone i sindaci si sbracciano. Cristiano Aldegani da Ponteranica regge una foto in bianco e nero dell’Umberto, dice che «solo in Lombardia i Comuni hanno in cassa 80 miliardi di euro che non possono spendere».

Fabrizio Turba da Canzo racconta che lui ha un milione che non può toccare, «l’ho messo via tagliando i costi. In un Comune da 5mila abitanti c’erano 12mila euro di spese all’anno solo per la carta». Peccato che poi «il ministro Brunetta invece di usare la mail mi manda i fax...».

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