Questo è il racconto di una salita verso la casa e l'anima di Filippo Dobrilla, attraverso il pensiero dolente di un allievo, Stefano Morelli, che restituisce la vita al Maestro, morto il 21 luglio scorso. Filippo era anche speleologo, primo e l'ultimo d'Italia, e i due compiono un'esplorazione nel cuore della terra. Io lo ascolto. Li vedo salire e scendere. E li osservo in silenzio. Stefano racconta.
«È già sera. Si sale incuranti dell'acqua. Le gocce si mescolano al sudore, il respiro si inasprisce e si fa pesante. Dove andiamo? Su per la montagna mentre i castagni crepitano. Un vento ancora gelido corre dal mare, dal Golfo dei Poeti che ora si nasconde alla vista. Si sale per poi discendere. Si è partiti che era già tardi ma lì non conta la notte o il giorno. Il nostro campo base è all'ingresso della Galleria del Cipollaio. Sono abbandonati tumuli di pietra bianca, scarti dei cavatori, giacimento prezioso per Filippo. Li analizza uno a uno annusandone la fisionomia interna. Di fronte a noi, dall'altra parte della valle, enormi cave da dove giungono gli ultimi boati estrattivi della giornata. Filippo sceglie un paio di lastroni di marmo; non sono grandi, ma comunque troppo pesanti. Li lasciamo non lontano, a bordo strada; in un'altra occasione verranno colti.
Si prosegue. Dopo la piccola galleria la strada discende per un tratto e si fa estrosa. È il tramonto e l'aria freme. La luce contro lo scoscendere delle pareti ora nude dà spazio a una mole inaspettata: è l'Altissimo. La montagna dalle forme eroiche che Michelangelo, quando era venuto a scegliervi marmi per San Lorenzo, ha sognato di plasmare a colpi di mine per definirla come un enorme nudo virile, un titano che si ergesse a faro guida del Tirreno. Guardandolo, nella sera che si fa piena, gli occhi di Filippo si riempiono di sogni; mi racconta del nonno che spesso, d'estate, lo portava su quel monte in lunghissime gite; mi racconta che l'amore per la montagna e la roccia nasce da quella montagna e quella roccia; mi racconta di Michelangelo e di come la storia del Faro lo avesse lasciato, bambino, stupefatto.
Si riparte abbandonando il sentiero, l'ultimo tratto è bosco. Si giunge alla nostra meta ma è solo il punto di partenza, ed è ormai notte. Non c'è la Luna e io temo l'oscurità, non conoscendo l'oscurità vera che mi attendeva. Inizia un rito: la vestizione. Nel freddo della notte primaverile ci si spoglia. Compio l'atto senza la sacralità che gli è dovuta, irritando forse la mia guida, e mi rivesto dell'imbracatura. L'entrata dell'Abisso del Saragato sembra un'enorme bocca, monumentale e fredda, simile credo a quella che attraversò Dante. Da questo grande antro, in cui sopravvive la neve del passato inverno, vedo scomparire Filippo in una fessura della parete, facendomi segno di seguirlo. Raggelo di orrore, lo seguo per orgoglio, non per coraggio. In me non vi è predisposizione o consapevolezza. Mi decisi ad affrontare la discesa per verificare una leggenda che mi fu raccontata prima che conoscessi Filippo.
Nel maggio del 2011, in occasione dell'allestimento del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia venni per la prima volta a contatto con una sua opera. Si trattava di Umanitas, un grande blocco rettangolare da cui aveva tratto due mirabili porzioni di corpo. Illustrandomela, Vittorio Sgarbi mi raccontò di questo straordinario scultore e della incredibile impresa da lui compiuta. Nel farlo sembrava seguire la trama di un poemetto epico, pieno di suggestioni e di incanti. Dobrilla sente urgere il corpo dentro la pietra, lo vuole estrarre. Salgono sulla sua montagna, dove vive libero nella natura, grandi blocchi di marmo di Carrara che non hanno committente e non hanno destinazione. Ma egli sa che contengono forme insoddisfatte che richiedono la sua mano per essere riconosciute. Questo scultore un po' eccentrico, un po' folle, ha scolpito un colosso nel ventre stesso della montagna, rimanendo sommerso per settimane consecutive, battendo lo scalpello con il mazzuolo sulla nuda, monolitica, roccia. Si intuiva, se non amarezza, nostalgia nel resoconto del professore, perché consapevole che l'opera era celata ad ogni possibilità d'esser vista. Così mi convinsi a scendere nell'abisso.
Non avevo idea di cosa mi aspettasse. E difficile oltre che ingiusto sarebbe provare a dar forma alle emozioni che mi assalgono nel buio bianco del ventre della montagna. Mi trovo in un abisso sterminato dalle inaudite proporzioni babeliche, dove, le une dentro le altre si costruiscono volumetrie gotiche e ultrabarocche che sembrano far rivivere decine di Chartres e Reims e San Pietro e templi indù e thailandesi. Una successione estatica in cui il genio architettonico della divinità sembra palesarsi con la dirompenza di chi abbia voluto riservare per la parte più nascosta della sua opera le sue capacità migliori e inusuali. Ogni lembo di roccia, mai così simile alla carne, è plasmato dal sinfonico gocciolio che cade e trasforma. Questo era l'universo di Filippo Dobrilla.
Già prima del pur decisivo incontro con Vasco Baldi, capomastro dell'opera del Duomo di Firenze e suo maestro per qualche mese, Filippo aveva imparato a conoscere la pietra nel profondo, dal di dentro, studiandola nelle viscere. Istintivamente sapeva riconoscerne i cedimenti, la purezza, il verso cristallino perché aveva vissuto questi luoghi come nessun altro tra gli scultori. Per anni aveva visto l'opera maestosa del gocciolio dell'acqua nelle cavità carsiche. Così non gli fu difficile attuare rapidi successi nella lavorazione della pietra durante il suo apprendistato. Inizia con la pietra serena, simbolo e orgoglio fiorentino, che cava in un giacimento di Fiesole, vicino casa. Lavora alcuni capitelli e uno stemma; poi continua con il bianco apuano. Mi racconta, mentre continuiamo la discesa, che alla metà del 1992 è colpito da una febbre sfibrante che durerà, misteriosa, un anno. È una febbre che rimane bassa ma che non scompare. Sono mesi difficili e inquieti per lui. Soffre la mancanza delle agognate montagne. Lo tormenta la lontananza dall'amico e compagno che si concedeva al suo amore solo negli abissi. In questo periodo di lunga convalescenza affronta la lettura della Vita di Cellini rimanendone folgorato ed eternamente legato. Si riconosce nel tormento dello scultore, nella sua prigionia, nelle sue pulsioni, nel desiderio di cose ardite. Ne recita alcuni passi a memoria di fronte ai miei occhi increduli in una pausa durante la discesa a trecento metri dalla superficie.
Mi racconta che a partire dalla metà del '93 è un'altra persona e anche il suo rapporto con la montagna e le profondità è cambiato. Non vuole più solo avventurarcisi e fagocitare record; vuole viverla partecipando al moto creativo in atto in essa e che è all'opera, ora, sotto i miei occhi. Vuole imitare l'acqua che vedo dilavare le pareti. Rendere omaggio a quest'abisso con tutto se stesso. È così che inizia a lavorare a un gigante a seicento metri di profondità. In solitudine. È su quel gigante che affina la tecnica, applicandosi per settimane consecutive a ritmi che solo l'adattamento della fisiologia umana alla profondità può permettere. Vi lavora assiduamente per un anno fino a completarne la sbozzatura. È un gigante dalla corporatura asciutta sorpreso col il sesso in erezione durante il sonno. Il braccio destro è declinato sul capo a conciliarne il riposo. Il sinistro sembra accarezzarsi l'anca. Il sesso priapeo sembra sganciarsi dalla superficie come un corpo estraneo, prorompente.
L'opera è insieme un omaggio alle notti di prigionia del Cellini e un'emulazione inevitabile e appassionata del titanismo michelangiolesco».Si arriva a vederlo, bianco nel bianco, calandosi da un ultimo decisivo immenso pozzo di quasi cento metri, in una vastità che è il nulla; e allora si prova pietà per la sua prigionia. E per la nostra lontano da Lui.
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