La lady al comando si vede dallo stile

Il caso Hillary Clinton: da «castigata» a sensuale

Se il diavolo veste Prada, come diavolo si vestono le donne di potere? «Secondo le occasioni e la nazionalità» rispondono in molti citando i solidi tailleur teutonici del cancelliere Angela Merkel oppure la mania tipicamente inglese della Regina Elisabetta per i cappellini.
Gli esperti d’immagine non sono dello stesso avviso e snocciolano una serie di casi singolari. L’ultimo in ordine di tempo riguarda Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace e candidata alle presidenziali del Guatemala del 9 settembre. La signora si presenta ovunque con il costume tradizionale del suo Paese: un semplice pezzo di tessuto coloratissimo avvolto sul corpo. Proprio per questo lo scorso agosto è stata allontanata da un albergo a cinque stelle di Cancun, in Messico, dove doveva partecipare a una conferenza panamericana. «I portieri l’hanno scambiata per una venditrice ambulante» si è giustificato il direttore dell’hotel.
Ci sono donne di potere che volutamente prendono le distanze dallo stile nazionale. Wu Yi, vicepremier della Cina, sfoggia completi all’occidentale con piena soddisfazione dei suoi connazionali che certo non rimpiangono la classica divisa imposta ai tempi di Mao. Invece infuriano le polemiche su Cécilia Sarkozy perché preferisce Prada ai grandi nomi della moda di Francia e quando si degna di partecipare agli incontri ufficiali spesso compare abbigliata come una bella signora che sta salendo sul traghetto delle vacanze. «Il suo guardaroba mi sembra un compromesso tra comportamento e ruolo - dice Enrico Finzi, presidente di Astra e sociologo dei consumi - per lo sciovinismo dei francesi la scelta di una firma italiana da parte della first lady è un vero schiaffo. Ma ha saputo crearsi un personaggio». Finzi invita poi a riflettere su una faccenda inspiegabile: le americane che non brillano per il buon gusto, in genere diventano più libere anche se non sempre eleganti quando entrano nelle stanze del potere politico, mentre in Italia succede il contrario. «Da noi c’è ancora lo stile suorina di Rosy Bindi o le divise da educanda della Pollastrini, mentre in America, dove sono molto più moralisti, Hillary Clinton ha avuto il coraggio di mostrare l’attaccatura del seno incurante delle critiche».
Sullo stile della prima donna che aspira alla presidenza Usa i pareri sono discordi: qualcuno la trova meno autentica da quando si fa vestire dagli stilisti (Donna Karan in testa), altri l’approvano (Anne Wintour le ha finalmente concesso la copertina di Vogue America), ma tutti la giudicano finalmente guardabile. «Sicuramente meno di Condoleezza Rice» dicono i repubblicani fierissimi della passione di Condy per le scarpe firmate (soprattutto Ferragamo) e per certi cappotti militari che sul suo fisico palestrato fanno una gran figura.
Rania di Giordania però è inarrivabile con i suoi impeccabili vestiti firmati da Alberta Ferretti, Armani o Ferrè durante le visite all’estero, aggiungendo solo in patria e unicamente se lo ritiene indispensabile per motivi religiosi, il velo in testa. Le nuove potenti possono spaziare dal guardaroba post hippy di Meg Whitman, ammistratore delegato di e-Bay, al sartoriale firmato Dolce & Gabbana di Marina Berlusconi.

Perché è proprio finita la fase denigratoria della femminilità per cui vestendosi al maschile ci si illudeva di avere lo stesso potere degli uomini. Ma anche la scelta opposta rappresentata dall’immagine da strafiga coltivata per provocazione non ha più senso. C’è tutto e il suo contrario. Tranne una crescita significativa di donne al potere.

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