Lamolinara era quasi libero Condannato dal blitz inglese

No. Proprio non si aspettavano quel finale. La signora Anna, moglie di Franco Lamolinara, era stata chiamata a Roma il 27 febbraio scorso e aveva visto un video in cui il marito, prigioniero dei terroristi nigeriani, sembrava in buone condizioni. Ora da Gattinara, davanti alla bara dell’ingegnere, Bruno, il fratello, spiega: «Nel filmato Franco ci era sembrato in salute, anche se dimagrito. Era accanto al suo collega inglese Chris. La morte di Franco è stata una tragedia a ciel sereno». Insomma, qualcosa, anzi molto, non quadra in una storia che assomiglia a un giallo in piena regola. Un sequestro che sembrava a un passo dalla soluzione e invece è finito nel peggiore dei modi. A Gattinara i familiari ringraziano le autorità, ma certo fanno fatica a capire: le premesse erano buone, molto buone e il video, di cui ha dato notizia ieri il Messaggero, era stato giudicato rassicurante. «Ci aspettavamo che Franco tornasse a casa con le sue gambe», ribadisce Angela Lamolinara, sorella della vittima. E il figlio, Mattia, non dimentica nessuno nel ricordare chi è stato vicino alla famiglia: Giorgio Napolitano, Mario Monti, i responsabili dell’unità di crisi della Farnesina, le autorità locali, persino il premier inglese David Cameron che ha inviato un messaggio di condoglianze.
Ma allora che cosa è accaduto compromettendo la liberazione di Lamolinara e McManus? Inoltre, non è chiaro se sia stato pagato un riscatto o almeno una prima tranche. Un primo punto pare spiegare, almeno in parte, la dinamica convulsa dei giorni scorsi. Tre terroristi nigeriani vengono catturati prima dell’8 marzo scorso, quando scatta il blitz, ma un quarto complice riesce a far perdere le proprie tracce. È questo forse l’episodio chiave della storia. La trattativa, che stava procedendo nella giusta direzione, si blocca e gli inglesi, d’accordo con i nigeriani, decidono l’operazione. A razzo. Questa la chiave di lettura data nell’audizione davanti al Copasir da parte del generale Adriano Santini, direttore dell’Aise. Gli inglesi vanno di fretta e vogliono ridurre i rischi: temono che il fuggitivo, probabilmente il capo del gruppo, possa mettersi in contatta con la cellula che gestisce i due ostaggi per spostarli in un altro covo. O per ucciderli. E invece bisogna acchiappare l’attimo giusto: uno degli arrestati ha raccontato dov’è la prigione. L’attacco comincia subito, in pieno giorno, perché non si può aspettare. E la corsa contro il tempo di fatto blocca ogni comunicazione fra l’intelligence britannica e quella italiana. Però anche questo ragionamento s’inceppa: il blitz diventa una battaglia, come noterà Massimo D’Alema, e si conclude con un disastro. Muoiono tutti e due gli ostaggi.
Resta poi da chiarire il presunto pagamento del riscatto. C’è stato o no? Un portavoce dei fondamentalisti di Boko Haram racconta che la trattativa stava andando avanti anche sul lato economico: era stata concordata una cifra, pari a 1,2 milioni di euro, e una piccola parte era già stata pagata. Da chi? «A noi - ribatte Bruno Lamolinara - non è mai stata comunicata alcuna richiesta di riscatto». Forse la notizia che si stava parlando di soldi era circolata, spingendo gli inglesi, sempre più diffidenti, ad accelerare e a stringere i tempi? I dubbi sono tanti ma questo non convince: si sa che in linea generale Londra preferisce la linea dura, Roma il dialogo, ma l’impressione è che questa volta gli 007 inglesi abbiano sbagliato i loro calcoli.


Di fatto l’M16 taglia fuori l’Aise che peraltro non ha alternative: nel Nord del paese, teatro degli avvenimenti, i servizi italiani sono assenti e devono fidarsi, per forza di cose, dei colleghi britannici. In ogni caso la sorpresa non c’è: i rapitori sono stati informati o comunque si sono attrezzati per resistere. L’irruzione diventa una battaglia logorante. E sanguinosa.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica