La scoperta di un artista popolare, o primitivo, o naïf, era una specialità di Cesare Zavattini. Probabilmente fu il primo ad accorgersi di Antonio Ligabue, segnalata la sua attenzione da Marino Mazzacurati che, a un certo punto, visto il successo del selvaggio, si mise a copiarlo. Come in questo esemplare caso, l'artista primitivo è sempre un «caso». Poco dopo toccò a Piero Ghizzardi, le cui memorie, Mi richordo anchora, pubblicate da Einaudi, vinsero il premio Viareggio. Casi in cui le condizioni di vita, la totale assenza di regole, di studi rende miracolosi i risultati. Qualche volta entra in gioco la follia, o i temporanei soggiorni in manicomi, per reagire a comportamenti ed atteggiamenti sregolati. Questi artisti dimostrano una creatività spontanea, lontana non solo dalle accademie, ma anche da qualsiasi mestiere che non sia conquistato per istinto, senza disciplina e spesso grazie a ossessioni.
Ho sempre diffidato, oltre i casi citati, di questo genere di pittori, nei quali lo spirito di osservazione si coniuga spesso con una condizione onirica, fantastica, surreale. Comunque si esprimano, con modalità sempre diverse e sempre affini, si tratta di visionari pur fortemente ancorati alla realtà, spesso il mondo contadino, talvolta quello artigianale. Generalmente artisti come questi hanno una gloria locale: sono considerati eccentrici, «originali», pittoreschi, nel contrasto tra la loro vita e la produzione artistica. D'altra parte, «originale» ha il doppio significato di cosa stravagante, insolita, ma anche originaria, iniziale e, per ciò stesso, primitiva come è sempre l'opera, libera da trucchi ed esperienze, di artisti come questi. Anche a me è toccato talvolta di trovarne, e voglio raccontarne l'esperienza.
L'altra sera sono tornato a Porto Recanati, per parlare di «Rinascimento Adriatico», ovvero degli artisti, prevalentemente veneziani, che hanno inviato le loro opere in Romagna, nelle Marche, in Puglia per via d'acqua: Bellini, Crivelli, Marco Zoppo, Cima da Conegliano, Tiziano, Lorenzo Lotto, Veronese. Alla fine del lungo periplo, oltre la mezzanotte, ci aspettava una vecchia conoscenza che aveva tenuto aperta la sua locanda per noi. Un tipo originale. Ecco la storia della mia considerazione e del mio primo incontro con lui.
Andiamo con ordine: prima mi chiedono una testimonianza, mi parlano di un ristorante, e mi inviano un testo che parla di un personaggio pittoresco, insolito e «originale», Gianfranco Torbidoni, in arte «il Cingoletto», come il soprannome di un ristoratore. Da quello che ho potuto verificare la famiglia Torbidoni ha una tradizione di norcineria che ha come vertice il ciauscolo, un tenerissimo salame, morbido come una crema, tipicamente marchigiano, che ho imparato a conoscere nei miei lunghi soggiorni nelle Marche, da quando ero sindaco di San Severino Marche.
Mi pare assai probabile che anche il Cingoletto, dalla città di Cingoli dove è nato, benché asserito e fantasioso pittore, si muova nel settore, e che, quando arriverò a incontrarlo, celebreremo questi riti di sofisticata macelleria e norcineria. Una spedizione a Potenza Picena e a Porto Recanati non potrà essere estranea a questo settore fondamentale della creatività umana. Ma, leggendo le note che mi sono state trasmesse, tale aspetto è sottaciuto o forse implicito, in favore di una dolente e compresa narrazione della sua attività artistica. Ero stato quindi deviato da formule come: «il tema centrale della produzione pittorica del Cingoletto, tra difficoltà, fatica, gioie e dolori, è l'esistenza umana fatta di passione, di sofferenze e angosce». Troppo. E fino al compatimento compassionevole: «sono stati proprio questi ostacoli a mettere a dura prova i sentimenti del Cingoletto, a permeare il suo animo di un invisibile e sottile velo di dolore, appena percepibile, a sublimare le suggestioni e le emozioni...».
A questo punto della lettura, non nego di essermi infastidito e di aver iniziato a pensare che era forse meglio arrivare alla meta della mostra, capire la situazione davanti all'angoscia umana e pittorica dell'artista, e dare un saluto di circostanza, senza scrivere il testo che sto scrivendo. La questione si faceva difficile. Non avrei potuto, infatti, elaborare una nota su così vaghi indizi, dovendo, nella sostanza, scrivere di un pittore, cioè fare il mio mestiere. Così, vista la strada stretta, ho pensato di fare la cosa più semplice e meno pigra: osservare con attenzione le immagini dei dipinti del Cingoletto.
Ed è stata la più giusta. Perché esse non assomigliano per niente al volenteroso testo che descrive il personaggio dell'autore, concepito da una persona evidentemente malinconica, che ha raccontato un altro Cingoletto, atteggiato, dolente e sofferente per i mali del mondo, come un Leopardi di Cingoli, invece che di Recanati. E ci parlano invece di una grande energia vitalistica, legata ai temi dell'amore. In una luminosa estate perenne, alla delicatezza dei sentimenti, con la leggerezza di un Folon e un sentimentalismo alla Peynet, si intreccia una sensualità calda, prorompente, che riporta l'amore in una sfera erotica e sensuale. In una delle divertenti, e mai dolenti, invenzioni, si vede un acrobata che cammina sul filo, tenendosi in equilibrio con un'asta da cui pendono, bilanciandosi, un cuore palpitante e un prosperoso seno, motivi ricorrenti nella fantasia del pittore. Disegno libero, colori sfrenati, assenza di accademia sembrano legare questa intuizione immediata, primitiva, al mondo naïf.
Ma è soltanto un'impressione; perché nei dipinti del Cingoletto non c'è favola, ma vitalità, energia sentimentale e cromatica. E gli atti gentili, come quello di un ragazzo nero che offre il suo cuore a una ragazza bianca riparandola dal sole con un ombrello, esprimono una poesia amorosa semplice, ma sempre vitalistica, con una vera e propria esplosione di colore.
L'ispirazione e la visione del Cingoletto sono autentiche, necessarie. Egli appare, in quel mondo, come una rivelazione e una rivoluzione di energia.Va tenuto d'occhio, il Cingoletto, e non solo per il morbido ciauscolo, ma anche per le sorprese che ci minaccia.
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