Laureato ma non inquadrato Vasco rilegge le sue canzoni

Il rocker di Zocca raccoglie in volume tutti i suoi testi

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Apartheid nella grassa, dotta, bonaria Bologna? Può succedere. «Ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire emarginazione, esclusione - racconta Vasco Rossi -. Nella mia scuola c’era una sezione apposta, la H, per quelli che venivano da fuori città». E lui che veniva da Zocca, un paese tra Modena e Reggio, ha rievocato quella brutta storia in Mi si escludeva, canzone del 1996 tra le più acri del rocker emiliano.
Lo leggo in Le mie canzoni (Mondadori, centocinquantamila copie vendute in un soffio), in cui Vasco ha raccolto tutti i suoi testi, commentando con caustico buon senso una vicenda iniziata nel 1978 (Ma cosa vuoi che sia una canzone) e approdata finora al 2004 di Buoni o cattivi: ventisei anni di passioni, speranze, disinganni, di gavetta e trionfi e di mai rinnegata libertà intellettuale.
Dove le parole chiave - dice bene Ranieri Polese, nella sua prefazione - sono «guai, bar, vita, noia, fregarsene», e lo stile apparentemente naïf è in realtà studiatissimo, da parte di un artista che ha scelto il linguaggio della quotidianità ma ama Proust, Nietzsche, Kierkegaard, Sartre, Leopardi, è cresciuto ascoltando De André, De Gregori e Guccini ma non ritenendosi «così bravo» ha trovato nel rock la sua dimensione. E il sigillo della sua alterità: non per niente il successo arrivò negli anni Ottanta, «gli anni - dice Vasco - degli yuppies, dell’esagerazione e dell’arroganza», in cui «una generazione, la mia, che diceva di voler cambiare il mondo è finita a lavorare per quello stesso potere che tanto criticava».
Ma «c’è chi dice no» ed ecco il Blasco. Figlio non succube del nostro tempo e come pochi capace di esprimerlo attraverso il proprio vissuto: fitto di «ricordi amari, errori, illusioni, scontri con la realtà e paure». Come quella «d’una vita piatta, tranquilla, senza emozioni», che emerge dal sogno anarcoide di Vita spericolata e, nel libro, da autoritratti di scabra efficacia. Come questo: «Non ho certezze, solo sofferenze e solitudine che, se trasformate in musica, possono essere almeno utili allo show». E tuttavia Le mie canzoni non è un libro tetro: c’è, in Vasco, una salda componente clownesca, che emerge da molti suoi testi e dai commenti che l’artista riserva ai medesimi: dopo «ventidue giorni nella cella ventidue» del carcere di Pesaro «guidavo cantando Vado al massimo e infatti sono stato fermato per eccesso di velocità».
Il libro è la risposta indiretta a chi temeva che la recente laurea honoris causa potesse condurre il Blasco nei recinti dell’ufficialità e che, addirittura, fosse alle porte il suo «arruolamento» in un importante partito, come ha tentato di sostenere un giornale.

Il rischio non c’è: «La musica non ha padroni», canta Vasco, troppo individualista per accettare tutele, troppo moralista per integrarsi in una civiltà in cui «vedo ipocrisia, buonismo e arroganza. E farmacocrazia, la nuova religione del corpo e della salute». Costituzionalmente «solo e libero», pur chiedendosi: «Libero da che cosa? O per che cosa? Siamo in grado di gestirla, questa straordinaria libertà?».

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