"Lavorare è bello. solo con la fatica si può migliorare"

Il filosofo spiega il suo libro sul mondo produttivo: "Racconto i mestieri moderni come fossi Canaletto"

"Lavorare è bello. solo con la fatica si può migliorare"

da Londra

Il lavoro ha la pretesa di costituire, assieme all’amore, uno dei cardini attorno a cui ruota il senso della nostra vita. Sui piaceri e i dolori del lavoro si esprime lo scrittore inglese Alain de Botton, nel suo nuovo libro Lavorare piace (Edizioni Guanda, traduzione di Luisa Nera, pagg. 324, Euro 17,50) in cui fra racconto e reportage illustra una scelta «deliberatamente eclettica» di realtà e di personaggi dai portuali ai contabili, dai produttori di biscotti all’ingegneria elettronica, alla logistica, all’imprenditoria, alla consulenza di carriera, raffigurati come - dice lui - in un grande quadro di Canaletto.

Il suo libro si propone di allargare l’immaginazione del lettore, invitarlo a un nuovo modo di vedere il lavoro...

«Volevo illuminare un vasto raggio di attività del mondo del lavoro, raramente rappresentate nell’arte. Presenti sulle pagine dei giornali più come fenomeno economico che non come fenomeno “umano”. Volevo insomma scrivere un libro che aprisse gli occhi sulla bellezza, la complessità, la banalità e certamente anche l’orrore del lavoro moderno. Ad ispirarmi è stato il libro What do people do all day? (Che cosa fa la gente tutto il giorno) dello scrittore americano per bambini Richard Scarry. Ho voluto scrivere una versione per adulti del suo grande libro».

Dunque il lavoro. Perché lavorare piace?

«Siamo esseri ansiosi. Il lavoro ci aiuta a mettere a fuoco e a dominare un mondo imprevedibile, a concentrare le nostre ansie su pochi obiettivi modesti e raggiungibili. Senza la possibilità di lavorare ci sentiremmo fisicamente e psicologicamente in pericolo, rischieremmo di uscire di testa. Abbiamo ben radicato in noi l’impulso di usare le nostre forze e la nostra intelligenza per difenderci dalla paura, dal terrore del mondo esterno. Inoltre il lavoro ci distrae, ci permette di investire le nostre speranze di perfezione, ci impedisce di combinare guai peggiori».

Oggi il lavoro è importante per la definizione della persona, per la sua identità e autostima. Perché?

«Questo è un problema sociale moderno. Dipende dalle nostre aspettative psicologiche. Il lavoro ci dà un senso di superiorità, di fiducia in noi stessi. Ma non è sempre stato così. L’idea moderna che il lavoro debba essere il centro della nostra vita e della nostra affermazione è storicamente ambiziosa».

Il disoccupato ha ragione di sentirsi escluso da un rapporto completo con se stesso, il lavoro gli manca per la definizione dell’io?
«Quando manca il lavoro, è utile ricordare che la nostra identità va oltre quello che c’è scritto sul nostro biglietto da visita. Dobbiamo ricordare che eravamo persone molto prima di essere dei lavoratori, e continueremo ad esserlo anche quando avremo deposto i nostri utensili per sempre. Da laico incallito quale sono, resto affascinato dall’ingiunzione di Sant’ Agostino che sia peccato giudicare un uomo dalla sua posizione sociale».

Tuttavia chi non lavora si sente a disagio nella vita sociale…

«Perché nella nostra società non riusciamo ad accettare che qualcuno possa esistere al di fuori del far soldi. Il mio libro illustra che per migliaia di anni il lavoro era considerato un inevitabile peso e niente di più, qualcosa da fare il più rapidamente possibile. Aristotele fu solo il primo di molti filosofi a dichiarare che nessuno potesse essere libero e insieme costretto a guadagnarsi da vivere. Fare un lavoro, qualsiasi lavoro, era una forma di schiavitù e negava all’uomo ogni possibilità di grandezza. La cristianità aggiunse la dottrina ancora più cupa secondo cui le miserie del lavoro sono l’inevitabile espiazione per i peccati di Adamo».

Quando migliorò l’immagine del lavoro?
«Con i pensatori borghesi del diciottesimo secolo, che ribaltarono la posizione di Aristotele: la soddisfazione che per il filosofo greco si identificava con il tempo libero veniva ora trasferita nella sfera del lavoro. Così nacque la nozione peculiare che si potesse fare un lavoro redditizio che al tempo stesso realizzasse i nostri sogni. Così per noi oggi è diventato tanto impossibile pensare di essere soddisfatti e felici senza un lavoro».

Quando un lavoro diventa significativo abbastanza da soddisfare le nostre aspettative psicologiche?

«Quando ci dà la sensazione di fare qualcosa per migliorare la vita degli altri, di essere riusciti a contribuire al mantenimento del bene comune. Non parlo naturalmente di grandi cambiamenti, la differenza può essere nelle piccole cose. Questa è una componente innata della natura umana, insieme alla più nota brama di ricchezza e prestigio sociale. Ma l’industrializzazione ha reso meno accessibile questa sensazione di far qualcosa per gli altri».

Lei cita l’economista Vilfredo Pareto e il suo ideale di efficienza basato sulle professioni sempre più specializzate. Le specializzazioni sono sufficienti a soddisfare i bisogni spirituali dell’uomo?

«Un’attività dotata di significato riesce a essere percepita come tale solo quando procede nelle mani di un numero limitato di agenti, in modo che i singoli lavoratori riescano a collegare l’impatto del loro lavoro sugli altri».

In altre parole che cosa deve essere il lavoro e che cosa non può essere?

«Dipende sempre dalle nostre aspettative. Ci sono due scuole di pensiero. La visione della classe operaia vede nel lavoro una funzione innanzitutto finanziaria, per guadagnare il pane. All’opposto c’è la visione borghese, che considera il lavoro essenziale per una vita realizzata. Queste due filosofie coesistono sempre, ma in tempi di recessione prevale la prima visione».

L’importanza del lavoro oggi, come punto di leva per superare la crisi attuale?

«La promessa del mondo moderno era che saremmo stati in grado di lavorare di meno, e invece sembra sia successo il contrario.

Oggi la vita non è meno competitiva e irta di pericoli di quanto non sia stata in tempi di povertà. Il risultato è una maggiore ricchezza che va a braccetto con una più grande paura, e la sensazione di essere stati traditi sulla via verso la terra promessa».

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