"Se incrociamo i dati...". Cosa dicono le telcamere sul caso Resinovich

Parla l’informatica Sara Capoccitti: "Vi spiego cosa si deve analizzare"

Liliana Resinovich in via Damiano Chiesa (Screen Le Iene)
Liliana Resinovich in via Damiano Chiesa (Screen Le Iene)

È cominciato tutto come uno studio accademico, ma quello che ha trovato Sara Capoccitti potrebbe essere utile alle indagini su Liliana Resinovich. La studiosa - criminalista, analista forense, fondatrice del progetto Forensically - ha infatti analizzato i filmati di videosorveglianza in cui si ritiene appaia Liliana Resinovich il giorno della scomparsa, il 14 dicembre 2021.

Un giallo intricato quello dell’anziana di Trieste, per cui ora si indaga per omicidio. Primo e solo finora a ricevere un avviso di garanzia è il marito Sebastiano Visintin: la procura di Trieste dovrà trovare la quadra tra le due consulenze disposte, una orientata verso un presunto suicidio, una seconda verso un presunto omicidio. E questo lavoro dovrà essere fatto incrociando pochi dati certi e altri indizi.

In più ci sarebbe troppa pressione mediatica: “La narrazione ha rischiato di far perdere di vista la dinamica dei fatti”, spiega Capoccitti a IlGiornale. Resinovich fu ritrovata cadavere tre settimane più tardi nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico giuliano e la procura ritiene che nei pressi di quel luogo ci potrebbe essere giunta con le sue gambe, dato che sarebbe stata inquadrata da alcune telecamere di sorveglianza. Ma su questo punto non ci sarebbero certezze.

Dottoressa Capoccitti, lei ha concluso il suo studio sui filmati di via San Cilino, via Damiano Chiesa e piazzale Gioberti, ritenute le ultime immagini di Resinovich, catturate dalla videocorveglianza. Cosa si può dire?

“La mia conclusione sullo studio: non ci sono abbastanza informazioni per procedere a una comparazione, ovvero mettere a confronto i video nei quali siamo sicuri che la persona ritratta è Liliana Resinovich con quelli di reperto, in particolare quelli di via Damiano Chiesa e poi quelli di piazzale Gioberti, perché non è possibile omogeneizzare i termini di confronto. In altre parole, questi video non hanno le stesse caratteristiche, sebbene qualche elemento è emerso, come per esempio l’ampiezza della falcata, che potrebbe essere sovrapponibile. Tuttavia questo non è sufficiente a un’identificazione piena”.

Come mai?

“Ogni elemento sicuro in questa indagine, in cui sono più le ipotesi che le certezze, è importante. Ma nei filmati ci sono diverse difficoltà perché la figura non può essere valutata: la persona ripresa nel tratto di via Damiano Chiesa ha delle borse che coprono l’articolazione del ginocchio e impediscono un’oscillazione naturale delle braccia, per cui c’è una carenza di possibilità di analisi sulle articolazioni. Il ritmo del passo è invece qualcosa che può far pensare che quella sia Liliana Resinovich, ma in piazzale Gioberti non lo si può dire”.

Qual è il problema?

“Il problema è poter prendere o meno quel video come prova cardine nella ricostruzione degli eventi: quella prova deve essere necessariamente integrata con altri dati, perché da sola rappresenta un dato neutro e non può costituire le fondamenta della ricostruzione della dinamica dei fatti”.

Quali sono i dati informatici di altra natura che potrebbe essere importante integrare?

“I dati informatici che mancano sono di due tipi: quelli mancanti, che potrebbero non essere a disposizione degli inquirenti, e quelli manchevoli perché non si conosce l’origine dell’acquisizione”.

L’applicazione contapassi di Resinovich ha indicato pochi metri il giorno della scomparsa. Quali sono i limiti dell’app?

“Sono tanti, perché non si tratta di un dato incontrovertibile. In questa indagine i dati incontrovertibili sono pochi e dovremmo partire da quello. Per esempio non è incontrovertibile che il corpo sia rimasto nel boschetto per tre settimane. Oppure l’ipotesi che Visintin abbia aggredito e soffocato la moglie solleva diverse domande: portava con sé sacchi neri? E, se non li aveva, è tornato sul posto con tutti i rischi di essere visto durante una presunta attività di staging? La posizione semi-fetale del corpo porta a pensare che l’ipotesi della dinamica possa essere un po’ diversa da quella ipotizzata, fermo restando che non abbiamo certezza del possibile percorso di Resinovich la mattina della scomparsa. E poi cambierebbe tutto”.

In che senso?

“Se il responsabile aveva con sé i sacchi neri, è possibile che non si tratti di un omicidio di impeto. Tuttavia la posizione semi-fetale del corpo sembra essere una posizione da trasporto. Tra l’altro i sacchi non erano stropicciati, ma presentavano ancora le righe della piegatura da packaging. Non è dimostrato quindi, in base a ciò che è noto, che il corpo possa essere stato nel boschetto per tre settimane, anche perché ci si domanda come sia possibile non sia stato attaccato dagli animali selvatici”.

Questo caso appare molto polarizzante per l’opinione pubblica.

“Sì, non si tratta solo di schierarsi in colpevolisti e innocentisti ma di ignorare la complessità del caso scambiando la banalizzazione con la semplificazione”.

Sui social c’è una ridda di teorie più meno incontrollate e fantasiose. Molti paragonano il giallo di Trieste al caso di Isabella Noventa, affermando che ci sia una sosia ripresa dalle telecamere. Ci sono realmente casi dal passato con cui ci sono somiglianze?

“Dal punto di vista della pressione mediatica sì: l’omicidio di Maria Cappa del 1945 per cui fu condannato il marito Arnaldo Graziosi. È stato probabilmente il primo caso in cui c’è stata una divisione così netta tra innocentisti e colpevolisti della storia del true crime italiano.

E la narrazione ha rischiato di far perdere di vista la dinamica dei fatti. È la ricostruzione della dinamica che è fondamentale - ribadisco - intrecciando il dato informatico con gli altri scientifici e quelli di altra natura”.

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