(...) la competizione internazionale è più forte») e dal titolare del Lavoro Maurizio Sacconi: «Conferma la credibilità del gruppo italiano nel pur competitivo mercato internazionale».
Sapete che, su queste pagine, Bono è stato praticamente adottato. Per una serie di motivi: innanzitutto, perché Fincantieri è la prima azienda di Genova e della Liguria, con i suoi cantieri di Sestri Ponente, di Riva Trigoso, del Muggiano alla Spezia, la direzione Navi Militari di via Cipro a Genova e il Cetena, il centro studi deccellenza. Insomma, il core business di Fincantieri è tutto ligure. Qualcosa che, ad esempio, Confindustria Genova, nonostante Fincantieri sia stata fra i grandi elettori dei suoi vertici, a mio parere non nota a sufficienza.
Ma, soprattutto, abbiamo adottato Bono perché è un manager che, pur non facendo macelleria sociale, anzi (se esistesse un parlamentino dei manager sarebbe in area socialista, ma del socialismo più nobile, quello di Saragat, di Brodolini e del riformismo della migliore stagione craxiana), non ha mai avuto paura di dire e di fare cose anche impopolari. Ma giuste.
E così - mentre maggioranze e opposizioni cavalcavano demagogicamente ogni protesta nella speranza, spesso illusoria, di prendere voti fuori casa - Bono ha avuto la forza, e il coraggio, di punire i dipendenti che avevano scambiato Fincantieri per un dormitorio in orario di lavoro o che si presentavano in azienda, rigorosamente dopo aver timbrato il cartellino, con le pinne, fucile ed occhiali per immergersi e vedere se riuscivano a pescare qualcosa durante il turno.
Bono ha avuto la forza, e il coraggio, di fare il Marchionne prima di Marchionne. Perché il buonsenso può esistere anche senza il maglioncino blu e gli applausi di chi piace alla gente che piace. Ricordo, ad esempio, la sua battaglia contro la Fiom quando Fincantieri rischiò di perdere le commesse Carnival e Costa crociere per gli scioperi e i picchetti a Marghera. La raccontammo in prima pagina nazionale. E avrebbe meritato la prima pagina nazionale anche la sua bellissima intervista che ci fece a Parigi, dove lanciò un nuovo patto sociale, in cui aziende e lavoratori remassero dalla stessa parte: obiettivo maggiore competitività e produttività, migliori risultati aziendali, maggiori premi di produzione ai dipendenti. Insomma, tutto logico. Infatti, lappello cadde nel vuoto e ci fu pure chi, a livello sindacale, insorse.
Laltro giorno, proprio in concomitanza con la supercommessa americana, Bono è tornato allattacco, spiegando in unintervista che «va aumentata la competitività del sistema Italia e il vero problema è riuscire a salvare lindustria con una presa di coscienza collettiva del sistema Paese». Parole che lamministratore delegato di Fincantieri ha condito con i numeri, più efficaci di ogni lungo discorso. Lui, calabrese verace, nei numeri ci trova il peperoncino: «Loperazione negli Stati Uniti della Fiat con Chrysler ha messo in evidenza che la produttività degli stabilimenti americani è decisamente superiore rispetto a quelli italiani. È un fatto che a Detroit si lavora di più rispetto a Pomigliano. E anche in Fincantieri, dati alla mano, abbiamo verificato che i cantieri Usa garantiscono una produttività molto superiore, nonostante lavorino in condizioni operative e climatiche più disagiate: 1800 ore allanno rispetto alle 1300-1400 ore dellItalia».
Le parole di Bono - parole che ci piacerebbe sentire dai vertici confindustriali a tutti i livelli e che difficilmente si sentono dai vertici confindustriali a tutti i livelli - sono pietre sui luoghi comuni, secondo cui nulla può cambiare nelle relazioni industriali: «LItalia si è adagiata su una cultura diversa. È meno abituata a fare sacrifici rispetto al passato. Non si tratta di essere pro o contro Marchionne o pro o contro Bono. Assieme al sindacato, al quale riconosciamo un ruolo molto importante, dobbiamo ragionare sulle questioni concrete, come la formazione professionale, indispensabile per non perdere le competenze, e su quale sarà levoluzione futura dei sistemi industriali nel mondo e di come noi ci dovremo con essa rapportare».
Parole, in un certo senso, rivoluzionarie. Parole da grande manager e da grande industriale. Persino se vengono da un manager di Stato. Parole che mi piacerebbe sentire dai ministri, ad esempio. E che, infatti, un ministro si è schierato. Magari un po solo, soprattutto in un certo centrodestra, dentro e fuori dal Pdl, dove cè gente che si riempie la bocca in continuazione della parola «liberale», ma poi i concetti liberali non sa dove stiano di casa.
Sacconi, commentando le parole di Bono, ha spiegato: «Ha ragione quando sollecita anche nelle grandi manifatture cantieristiche nuove relazioni industriali utili a garantire quella maggiore utilizzazione degli impianti alla quale può collegarsi un incremento del salario dei lavoratori». Insomma, sembrerebbe labc, luovo di Colom(Bono) per fare contenti tutti. E per unItalia industriale (se non confindustriale, dove questi temi non sono particolarmente affrontati) migliore. E invece. Le prime reazioni sindacali sono state degne di un altro secolo e di un modello di fabbrica fordista, ormai sorpassato ovunque tranne che in una parte del sindacato italiano. Anche in quello che si proclama riformista, come la Uilm di Antonio Apa, solitamente aperto ai cambiamenti e non massimalista. E soprattutto in quello che si proclama «di destra» e che, a volte, è vicino a Gianfranco Fini, lUgl ex Cisnal: «Ogni amministratore delegato di aziende italiane dovrebbe avere a cuore gli stabilimenti del suo Paese prima di quelli stranieri» ha tuonato Laura De Rosa, vicesegretario nazionale dellUgl metalmeccanici, commentando le parole di Bono.
Intanto, il mondo va avanti.
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