Immaginatevi di essere un pollo di batteria piombato di colpo in un'aia sassosa tra galletti ruspanti e rustici villani.
Fatto? Bene: siete nei panni esatti di Tommaso Padoa-Schioppa, catapultato dai sofà delle Banche centrali nel turbine della politica. Il pover'uomo è lì, occhi nel vuoto, testa a ciondoloni. Un volatile implume in un mondo spietato.
Da cinque mesi, il ministro tecnico dell'Economia è nel posto sbagliato. Deve conciliare le astrattezze di cui è infarcito coi bisogni della gente di cui è digiuno. Ragiona sui parametri, i grafici, i numeri e ignora la vita. Per ridurre il deficit di bilancio, aveva due strade. La maestra: incoraggiare la produttività. La scorciatoia: tartassarci. Ha scelto le tasse. Tps è fatto così. Non è un Einaudi, che fa leva sull'intraprendenza dei concittadini. È un contabile, che deve quadrare i bilanci. L'ha detto: «Non sono disposto a sacrificare la stabilità monetaria sull'altare dell'occupazione». Ossia: mi interessa un piffero se devi sbarcare il lunario. Così, per ridurre il deficit al 2,8, ha alzato le imposte dal 40,5 berlusconiano al 43 per cento. Manovra geniale: il Pil scenderà nel 2007 dall'1,7 all'1,4; i consumi dall'1,6 all'1,2; la domanda interna dall'1,7 all'1,1; l'inflazione prenderà il volo.
Finché a criticarlo è stata la Cdl ha fatto spallucce. Si è invece inalberato quando lo hanno strigliato gli anglosassoni. Tps è un anglodipendente che intercala una parolina britannica ogni due. Fa la boccuccia a imbuto, traguarda con sussiego dagli occhiali e si esibisce in «repatriation», «torrential rain», «write-down». «Non sono io la prima generazione di Padoa-Schioppa che parla inglese», dice con un gorgoglio altezzoso. Immaginate dunque il torto che gli ha fatto il Financial Times, la sua Bibbia, classificandolo ultimo per bravura tra i ministri Ue. Dodicesimo su dodici. Letto l'articolo che gli dava del ciuccio, Tps è cascato nella poltrona dell'ambasciata italiana di Washington dove si trovava. Per un po' si è preso la testa tra le mani, poi le ha staccate con cautela lasciando al collo l'onere di sostenerla e ha tempestato di telefonate Palazzo Chigi. Ha subissato di querimonie Prodi dicendogli che voleva dimettersi, che era stato lasciato solo, che era incompreso. Romano lo ha consolato con la sua verve spigliata: «Boh, bohoo, bò. Sciuvvia... sciono sciorbolette... Scioffiati il naso». Dopo 24 ore di singhiozzi e una bolletta stratosferica, la crisi spirituale si è dissolta e Tps ci è rimasto sul gobbo. Subito dopo però è arrivato l'Economist che ha stigmatizzato il trasferimento all'Inps del Tfr (le liquidazioni). «È finanza creativa. Imperdonabile che il ministro consideri il Tfr come un'entrata anziché un debito verso i lavoratori», ha scritto il weekly londinese che, memore dei sette anni di Tommaso alla Banca centrale europea, ha concluso velenoso: «Un tipo di operazione che mai ci si sarebbe aspettata da un ex membro Bce». Tps era già più di là che di qua, quando è arrivato d'oltreoceano l'affondo mortale delle Agenzie di valutazione Fitch e Standard & Poors: lItalia è declassata. Il suo livello di affidabilità economica è ormai quello della piccola Grecia. Tre colpi, uno dietro l'altro, che hanno causato nel sessantaseienne ministro un evidente diradamento sulla nuca, un paio di tic e nervi a fior di pelle.
Apparentemente signorile, discreto e disteso, Tps ha invece un tono da capociurma coi sottoposti. Al ministero di Via XX Settembre, è chiamato «Ringhio» per i feroci liscio e busso ai collaboratori. Ha esautorato la Ragioneria e le altre Direzioni generali di cui non si fida e creato uno burocrazia parallela di gente sua. Ha nominato una commissione, presieduta dall'amico professor Riccardo Faini, per controllare i conti pubblici con lo scopo dichiarato di fare le pulci al predecessore, Giulio Tremonti. L'amico, obbediente, ha subito scoperto che il deficit era prossimo al 4,6, molto al disopra del 3,6 dichiarato dal centrodestra. Su questa base, il ministro ha fatto una Finanziaria da tregenda. Poi si è scoperto che, grazie a Tremonti, le entrate fiscali sono state quest'anno strepitose e che non c'era alcun bisogno di torchiare come invece è stato fatto. Bastava una manovra da 15 miliardi, anziché 40. La commissione Faini è così finita nel ridicolo e «Ringhio» ha perso prestigio tra gli addetti ai lavori. Le urla e le umiliazioni che infligge agli alti dirigenti non hanno oggi alcun effetto e suscitano compatimento.
È ormai chiaro a tutti che Tps è un ministro dimezzato. Lo è stato fin dall'inizio con lo spezzettamento del dicastero che ha sottratto a «Ringhio» un mucchio di competenze: Fisco e Banche sono in mano ai due viceministri, Vincenzo Visco e Roberto Pinza; il Mezzogiorno compete al ministro Pierluigi Bersani; il Cipe al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Fabio Gobbo, compagno di sedute spiritiche di Prodi. A Tps è rimasto un pugno di mosche, ma anche queste gli scivolano dalle dita. Partito male, è finito peggio. Politicamente, è isolato come un atollo della Melanesia. A parte Prodi che lo ha voluto, e ora lo difende per non smentirsi, stanno con lui solo bertinottiani, Comunisti italiani e Verdi. Gli estremisti del governo. Paradossale destino per un ricco e elegante banchiere centrale. Gli altri della maggioranza lo snobbano e pensano già a sostituirlo con Piero Fassino o un altro politico qualsiasi.
«Ringhio» paga la misera uniformità delle sue passate esperienze lavorative. Non è mai stato un manager alle prese con le difficoltà di un'azienda, un bancario che guarda in faccia il cliente bisognoso di un mutuo, un vero economista che osserva le costanti dei comportamenti sociali. Lui è solo un superpagato funzionario, di Bankitalia, Bce, ecc., esperto di scartoffie. Per giunta, gli è venuto a mancare il grintoso confronto con Fiorella Kostoris, la moglie economista che lo supera per competenza di varie spanne. Notoria rompiscatole, Fiorella è una docente coi fiocchi che si è sudata cattedra e pubblicazioni e che, per anni presidente dell'Isae (Istituto di studio e analisi economica), ha fatto indagini sul campo.
Sposati da decenni, tre figli, i due sono separati da alcuni anni. Galeotto è stato il soggiorno di «Ringhio» a Francoforte, sede della Bce di cui era consigliere. Qui, il briccone si è invaghito sessantenne dell'editorialista della Stampa Barbara Spinelli, figlia di Altiero, il mitico europeista del Manifesto di Ventotene (l'isola laziale in cui fu confinato dal fascismo). Poiché Fiorella era rimasta di sasso per il tradimento, Tps ha cercato di lavarsi la coscienza con un'iniziativa che ne dipinge a pennello la burocratica personalità. Ha spedito agli amici la seguente circolare: «Caro/a, ti prego di stare accanto a Fiorella, di non dimenticarla negli inviti a cena, di avere cura di lei, di coccolarla». Adesso la Spinelli, con lo strano beneplacito del suo direttore, pubblica sulla Stampa un paio di editoriali la settimana per magnificare l'opera di Tps e esaltare la Finanziaria scaturita dal cervello del beneamato. Fiorella ne scrive altrettanti sul Sole 24 Ore, per criticare l'opera del marital fedifrago. La differenza tra le due è che Barbara, digiuna di economia, scrive solo per amore, Fiorella anche per competenza.
«Ringhio» è un bellunese di alto lignaggio. Non è un nobile. Il doppio cognome deriva da un'aggiunta perché non si perdesse la schiatta degli Schioppa, cui apparteneva la nonna paterna. Il difetto di blasone è compensato da alcune generazioni di professionisti di successo. Il nonno fu banchiere a Trieste. Il padre è stato presidente delle Assicurazioni Generali, nella stessa città. Trieste è un punto chiave di Tommaso. Qui ha fatto il ginnasio e il liceo, rispettivamente al Dante e al Petrarca. Ha incontrato la Kostoris, di origine greco ebraica, e l'ha sposata. Ha avuto una laurea honoris causa. La laurea vera l'ha presa invece alla Bocconi di Milano. Prima di trovare la sua strada ha lavorato due anni in una ditta di abbigliamento belga, la C&A Brenninkmeyer. L'esperienza gli ha dato il gusto dell'internazionalità, delle grisaglie e dei panciotti. A 28 anni, ha vinto il concorso alla Banca d'Italia. Come figlio del potente capo delle Generali, gli fu subito pronosticata una carrierona. La Banca lo mandò a prendersi un Master al Mit di Boston. Tornato fu messo all'ufficio studi dove trovò Antonio Fazio. Fu antipatia a prima vista. I due erano opposti. Di famiglia umile Antonio, altolocato Tommaso, cattolico l'uno, laico l'altro. Divisi anche dal calcetto. Fazio partecipava alle partite tra scapoli e ammogliati, Tps le disprezzava. Non che «Ringhio» sia un intellettuale. Ama i libri d'azione e il massimo in cui si è avventurato sono i racconti marinari di Joseph Conrad. Ma prediligeva salotti e relazioni pubbliche. Dopo quattro anni a Bruxelles, come direttore generale della Commissione Ue, fu nominato vicedirettore generale di Bankitalia. Anche questa volta insieme al rivale Fazio, col quale si guarda sempre più in cagnesco. «Ringhio» ha avuto due protettori storici. Carlo Azeglio Ciampi, che a Bankitalia teneva a freno i suoi eccessi coi subordinati, e Eugenio Scalfari che ne fece un collaboratore di Repubblica. Ma né l'uno né l'altro riuscirono a imporlo come Governatore. La gara fu vinta da Fazio che, affronto supremo, gli preferì Vincenzo Desario come direttore generale. Fu così che Tps abbandonò la Banca d'Italia diventando, su tripla spinta carpiata di Ciampi, prima presidente Consob, poi banchiere europeo.
In questo magico recinto avrebbe dovuto restare (a occhio e croce ha accumulato pensioni per 50mila euro il mese) invece di sfidare il mare aperto della politica e fare un brutto naufragio. Quando però getterà la spugna, potrà sempre partire in crociera e vedere finalmente le onde dal lato buono.
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