Adalberto Signore
da Roma
La telefonata di Giancarlo Giorgetti arriva nel primo pomeriggio. «Domenica Pontida non si fa, abbiamo bisogno di tirare il fiato e schiarirci le idee», dice il segretario della Lega Lombarda a Cristiano Forte, segretario provinciale di Bergamo, il comune che ospita lormai celebre pratone tanto caro al Carroccio. Un decisione nellaria già dallaltroieri, su cui Umberto Bossi e Giorgetti ragionano a lungo. I due passano la prima parte della giornata insieme a Gemonio, nella casa del Senatùr. E analizzano pro e contro. Perché rinviare ancora lappuntamento di Pontida (già posticipato dal 18 giugno al 2 luglio) non può che essere interpretato come un segno di debolezza e difficoltà della Lega, soprattutto dopo lesito del referendum. Daltra parte, però, riuscire a predisporre tutto da qui a domenica, riavviando una macchina organizzativa già fortemente provata dalla campagna referendaria non pare affatto semplice. Non solo perché lentusiasmo non è alle stelle, ma pure perché fino a ieri non cè stato dirigente leghista che non fosse a testa bassa sulla campagna referendaria. Insomma, il rischio di una bassa partecipazione è più che concreto. Con annesse conseguenze: dalla lettura dei media che lo interpreterebbero come la fine della parabola leghista («sarebbe la stessa litania del 96, quando tutti ci davano per morti», spiega un dirigente del Carroccio) alla contestazione del Fronte indipendentista, piccolo ma rumoroso gruppo di fuoriusciti. Così, ci sta pure che Bossi se la prenda un po con se stesso, perché «al di là del risultato è stato un errore pensare di riuscire a organizzare Pontida a sei giorni dal voto».
Di questo discutono Bossi e Giorgetti, convinti fin da subito che la decisione non possa che essere una. «A Pontida - spiega il Senatùr - ci andremo quando sarà il momento, perché lì vado a dire delle cose, a prendere delle decisioni davanti al popolo. Quindi la faremo quando sarà il momento». «Adesso - dice ancora il leader del Carroccio - la Lega sta pensando a come procurar battaglia. Dobbiamo lavorare e pensare». Daccordo il coordinatore delle segreterie leghiste Roberto Calderoli, perché «a Pontida si va quando cè da presentare al popolo un progetto politico». Categorico, invece, sulleventualità che il rinvio possa essere letto come un segnale di malessere interno: «Ma figurarsi!».
Ma il Senatùr torna pure sulla cena di lunedì sera a Arcore. «Cosa abbiamo deciso con Berlusconi? Ci sono delle buone pensate, ma - spiega - non lo dirò certo io». Probabile che si riferisca allidea del Cavaliere di andare avanti sulla strada del partito unico del centrodestra con il quale la Lega si limiterebbe a una federazione. Unalleanza, avrebbe detto Bossi, «su basi nuove». E lidea su cui lavora il Senatùr sarebbe quella di riprendere il progetto federalista partendo da Lombardia e Veneto (le due regioni che hanno votato «sì»). Visto che il Paese non ci ha seguito - è il ragionamento di Bossi - «la Lega potrebbe tornare a battersi solo per il suo popolo chiedendo per Lombardia e Veneto uno statuto speciale che sarebbero solo lombardi e veneti a votare, come in Catalogna». Unidea che a Berlusconi non dispiace. Anzi, proprio in quelle regioni il Cavaliere avrebbe ipotizzato di «formalizzare» lasse del Nord tra Forza Italia e Lega, costruendo una nuova aggregazione «nel nome delle riforme».
La Lega, intanto, inizia linevitabile confronto tra le sue diverse anime. Aperto da Max Ferrari, portavoce del Fronte indipendentista, che annuncia «la fine del Carroccio». «A dicembre - dice accusando buona parte della dirigenza di essere sul punto di passare con Forza Italia - si scioglierà e chiuderà i battenti». Durissime le reazioni dei colonnelli. «Non so se chiamare il medico o lavvocato», dice Calderoli. Mentre il capogruppo al Senato Roberto Castelli parla di «grave colpo di calore». «Il suo problema è solo che non lhanno candidato», taglia corto Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani padani. Ferrari a parte, che lo slittamento di Pontida comporti anche una riflessione sulla politica della Lega degli ultimi cinque anni pare fuor di dubbio. Così, mentre il presidente federale Angelo Alessandri dice che «Berlusconi resta il primo interlocutore», Roberto Maroni apre al dialogo con lUnione («siamo disponibili a trattare sia con il diavolo che con lacqua santa»). Oscillamenti a parte, il problema più serio pare quello del ritorno alle origini. «In questi anni - dice Mario Borghezio - abbiamo messo allangolo i parenti che non sanno stare a tavola, la nostra militanza più sincera, determinata e combattiva: gli indipendentisti».
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