La leggenda dell’industriale che è stato incoronato viceré

Ha già investito 600.000 euro in Africa e conta di arrivare in breve tempo a 2 milioni, senza guadagnarci nulla. Piuttosto insensato per un pensionato di 84 anni che ha sempre fatto l’imprenditore e ora vive di rendita. Ma nell’età in cui sembrava avviato a occuparsi soltanto dell’Ordine lomellino della rana e del salame d’oca, da lui istituito un quarto di secolo fa, a Franco Magni è capitata una straordinaria avventura, tanto che un giorno forse sarà ricordato come Franco Magno: lo hanno proclamato viceré. È accaduto ad Ayamé, città della Costa d’Avorio fondata nel 1885 dal re Brou Dishié, sovrano degli Agnis del Sanwi, etnia cui ancora appartiene la maggior parte degli abitanti. Alla suggestiva cerimonia erano presenti le massime autorità statali e municipali, perché il regno di Sanwi - otto cantoni presieduti da un sovrano che funge da capo villaggio - riveste un ruolo determinante nella vita sociale della comunità, soprattutto quando vi sono da comporre le frequenti liti di natura civile. Essendo stata la Costa d’Avorio una colonia della Francia fino al 1960, ad Ayamé funzionano ancora sia l’ordinamento statale francese che quello tribale.
La corona pesa 390 grammi, il collare con pendente 300, il bracciale 130, l’anello 11. In totale 831 grammi di roba che Nanan Bosson Thomas, re di Ayamé del cantone di Djandji, il più importante, ha posto sul capo, appeso al collo, stretto al bicipite e infilato al dito di Magni. A prima vista sembrerebbe tutto oro quello che luccica, e per di più finemente lavorato in filigrana, ma il viceré non ha nessuna voglia di rivolgersi a un gioielliere per una stima. «I calzari rossi li ho lasciati laggiù. Idem il mantello regale: troppo pesante per metterlo in valigia».
Il neosovrano è fatto così: disinteressato. Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai buona parte delle sue sostanze sia stata destinata alla Fondazione Magni per Ayamé, che ha già comprato e messo a coltivazione 200 ettari di terreno, assunto 40 operai locali, preso in carico i 53 bimbi (orfani, abbandonati, sieropositivi) ospitati nella pouponnière, progettato una scuola professionale, trasformato 10 chilometri di viottoli del centro urbano in strade percorribili dai veicoli. Ora il mecenate sta per avviare la costruzione del Domaine La Renaissance, una cittadella ispirata al Rinascimento che ad Ayamé hanno già ribattezzato Cité Magni, dotata di uffici, foresteria, magazzini, officina meccanica, distributore di benzina.
Il viceré Nanan Essahue Aka Tiemelé - laggiù lo chiamano così - è nato a Torino. Il padre Dante perse la casa nella seconda guerra mondiale, per cui nel 1945 trasferì la famiglia a Vigevano, dove aprì la Manifattura Magni, che produceva abiti per uomo. Dopo essersi diplomato ragioniere, Franco Magni s’iscrisse alla Bocconi. Nel frattempo lavorava come rappresentante per la ditta paterna, sicché al conseguimento della laurea aveva già messo da parte i 6 milioni di lire che nel 1950 gli consentirono di diventare socio del genitore nella manifattura. Nel 1954 sposò Elina Dondi, tuttora al suo fianco, dalla quale ha avuto due figli, Massimo e Gloria. Agli inizi degli anni Ottanta la Magni, con i suoi 850 dipendenti, era la più grande industria di Vigevano.
Le imprese impossibili in terra straniera sono sempre state un pallino del viceré di Ayamé. Nel 1970, ancora regnante lo Scià, fondò a Teheran, in Iran, un’azienda di confezioni, la Jamco. Nel 1974 impiantò la Full style a Istanbul, in Turchia. Nel 1976 aprì con un socio la Allegra & Magni ad Atene, in Grecia. Subito dopo avviò la produzione di abbigliamento su licenza a Osaka, in Giappone, per conto della Sanko Seyko, gruppo tessile con 70 stabilimenti. La crisi del settore lo costrinse a cessare l’attività manifatturiera e a ripiegare sulla costruzione del centro commerciale Il Ducale a Vigevano, 40.000 metri quadrati con 60 negozi e ipermercato. Ora vuol vendere la sua quota di maggioranza nel Sagittario, la società che detiene il 40 per cento del Ducale, allo scopo di finanziare le iniziative non profit in Costa d’Avorio.
Quand’è cominciata quest’avventura?
«Una decina d’anni fa. Una ragazza africana, Silvia Kokora, vede una coetanea in stato confusionale in una piazza di Pavia. Si ferma per aiutarla. Scopre che è ivoriana come lei: un’infermiera di Ayamé che si sta specializzando all’ospedale San Matteo, traumatizzata per il distacco dal suo villaggio, spaventata dal traffico e turbata dal fatto che gli italiani non si salutano per strada. La soccorritrice trova nella borsetta della giovane il numero di telefono del professor Ernesto Bettinelli, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Pavia, presidente dell’Agenzia n. 1 per Ayamé, una Ong. Bettinelli rimane molto colpito da Silvia, che ha perso un pomeriggio per aiutare una sconosciuta. Nota che ha un problema agli occhi e la fa curare. Qualche anno dopo la giovane s’innamora di un connazionale; i due hanno una figlia, ma ben presto litigano, perché lei è di cultura francese e lui un musulmano osservante che considera la donna un essere inferiore. Silvia viene cacciata di casa, senza un quattrino, con una bimba di pochi mesi al collo. Bettinelli fa intervenire il professor Carlo Monteforte, direttore del reparto di ostetricia dell’ospedale di Vigevano, mio amico carissimo, il quale mi chiede se posso fare qualcosa».
Mi lasci indovinare: l’ha fatto.
«Ne ho parlato con mia moglie ed è subito diventata la nostra colf, nonostante avessimo già la donna di servizio. L’ho assunta solo per darle uno stipendio. Le ho anche firmato una fidejussione per la casa. Lo scorso 11 maggio s’è sposata a Mortara con un ivoriano e sono stato suo testimone di nozze. Ora aspetta un bambino, che nascerà ad aprile. Diciamo che l’ho un po’ adottata, insieme con la figlioletta che oggi ha 5 anni».
E l’altra ivoriana?
«È la capo infermiera dell’ospedale di Ayamé».
Dove lei è viceré.
«Non ne sapevo nulla. L’ultima volta che sono sceso laggiù, a ottobre, Emi Massignan, la direttrice laica dell’Agenzia n. 1 per Ayamé, mi ha informato che il re Nanan Bosson Thomas mi stava preparando questa sorpresa. Emi ci mette l’anima, io i soldi».
Mi racconti la cerimonia d’incoronazione.
«Tre ore di danze e inchini. Per loro era una cosa molto seria, a me invece scappava da ridere. Poi una sera ho portato a cena il personale. Si sono unite le mogli. Era la prima volta che entravano in un ristorante. Solo lì ho capito il valore della gente che avevo davanti. Volevano baciarmi l’anello, come si fa col Papa. Ho detto loro: non dovete baciare la mano a nessuno, mai! Io li chiamo amis, amici. Loro restano interdetti. Lei immagini l’Italia del 1200 col principe benefattore, che in genere era un mascalzone però munifico, e il popolo in adorazione».
Al referendum monarchia-repubblica del 1946 come avrebbe votato?
«Monarchia. Però oggi non vorrei Emanuele Filiberto di Savoia come re, pur essendo simpaticissimo».
Perché aprire una fondazione in Africa?
«È stata una scelta imprenditoriale, non filantropica, benché per statuto io non incassi neppure un euro. Il territorio dalla Costa d’Avorio al Senegal ha 400 milioni di abitanti e potenzialità immense, con giacimenti di petrolio, oro, diamanti, manganese, nichel, bauxite. Ad Ayamé il terreno è fertile e c’è tantissima acqua, che è più importante del petrolio. I 40 agricoltori che ho assunto producono palma da olio, caffè, banane, manioca e cacao, di cui la Costa d’Avorio è il principale esportatore al mondo. Fra cinque anni faremo il primo raccolto di caucciù. Nel prossimo biennio acquisterò altri 300 ettari, ma l’obiettivo è di arrivare a 1.000».
Quali problemi ha incontrato nel gestire la sua azienda africana?
«Nessuno. Sono stato fortunato. È gente che lavora sodo. Zero assenteismo. Tenga conto che i pochi ivoriani che hanno un lavoro guadagnano non più di 2 euro al giorno e sgobbano dalle 10 alle 12 ore. Da me prendono 3 euro, più festività, tredicesima e ferie. Gli darei anche di più, ma sono stato caldamente dissuaso: la disparità di trattamento farebbe scoppiare una rivoluzione. Le uniche difficoltà nascono al momento di acquistare i terreni. Non capisci mai da chi compri e che cosa compri. Ho dovuto arruolare come consulente legale un giudice di Abidjan, l’ex capitale».
Che cosa sperano di trovare in Italia gli africani che espatriano?
«Il benessere. E lo trovano. Quelli che incontriamo per strada sono ricchi, perché riescono a mandare soldi a casa. Nel loro Paese vengono considerati degli arrivati solo perché in Italia guidano un’auto di terza mano. In Costa d’Avorio solo i potenti possono permettersi una macchina».
Se la terra è fertile, perché nessuno la lavora?
«Sono privi di tenacia. Preferiscono venire in Europa. Oppure andare ad Abidjan a fare i soldati o le prostitute».
E a lei non sta bene.
«Non voglio regalargli il benessere, bensì insegnargli il senso della bellezza che salverà il mondo, come afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij. Per questo ho già dato incarico a un artista locale di dipingere all’ingresso del Domaine La Renaissance un affresco intitolato Il Quinto Stato».
Non come Pellizza da Volpedo che s’è fermato al quarto.
«Agli affamati puoi dare un piatto di minestra, agli ammalati una medicina, ma poi all’uomo devi offrire qualcosa in più e questo di più è la bellezza. Io non sono cattolico, sono un laico, non ho il dono della fede. Rispetto tantissimo la Chiesa ma non potrei mai recitare il Credo, per il semplice motivo che non ci credo. Però sono certo che la mancanza della dimensione spirituale è la rovina del mondo. A volte mio figlio mi rimprovera in chiave evangelica: “Se fai la beneficenza, la devi fare in silenzio”. Ma perché? Io non faccio opere buone. Faccio l’imprenditore. La visibilità è il mio pane, un’azienda ha bisogno di comunicare. Altrimenti come avrei potuto parlare al cuore di quel mio amico banchiere che siede nel board dell’Ubs e che ora vuol mollare tutto per trasferirsi a fare il volontario ad Ayamé? E convincere l’architetto Sandro Rossi, vincitore del concorso per la riqualificazione della Darsena di Milano all’interno dell’Expo 2015, a regalarmi i progetti per la Cité Magni di Ayamé?».
Ma non poteva aprire un’azienda per i giovani di Vigevano senza lavoro?
«Il grande vantaggio dell’Africa è che riesci a fare molto con poco. Un ettaro di terreno costa appena 300 euro e con altri 300 lo metti a coltura. Ho raggiunto un villaggio, Assikro, dove non avevano mai visto un uomo bianco, volontario o missionario che fosse. Per ottenere un diploma statale, ci vuole la scuola in muratura. Lì avevano solo una capanna e due maestri pagati in natura. Con 5.000 euro ho tirato su un edificio di mattoni e fatto felici 4.000 abitanti. Ammesso che ci provassi in Italia, mi obietterebbero subito che la scuola non è costruita a norma di legge».
Agli italiani che restano disoccupati a 50 anni non ci pensa?
«Sono il meno adatto a rispondere. A 20 anni mi dissi che non volevo la pensione. E così ho fatto. Oggi non prendo assegni dalla Previdenza sociale. Per carità, non dico che tutti debbano fare così. Io sono un anarcoide. Ma quando uno Stato preleva il 50 per cento dei guadagni dalle tasche dei lavoratori, sotto forma di tasse, i cittadini non sono più uomini: diventano automi bisognosi di assistenza. Uno Stato virtuoso dovrebbe invece limitarsi a fare solo ciò di cui i privati non sono capaci».
Quando anche gli africani saranno satolli di auto, televisori, lavatrici e telefonini, che accadrà?
«Guardi, io sono ottimista. In Costa d’Avorio potrebbero avere il tenore di vita della Svizzera solo coltivando la terra. In Europa si elargiscono incentivi per non coltivarla. Qualcosa non quadra. Abbiamo rinunciato alla nostra missione per diventare catastrofisti. Siamo un continente vecchio, lento, decadente. Eppure eravamo il faro del mondo, è qui che è nata la civiltà. Ci perdiamo in chiacchiere, non prendiamo decisioni. In Africa le cose si fanno, magari pasticciate però si fanno. Ho chiesto alla municipalità di Ayamé la licenza per costruire su un terreno che avevo acquistato. “Faccia quello che vuole”, ha replicato il funzionario. Ho obiettato: ma è sicuro che quel terreno sia mio? Risposta: “Non credo che lei sia così sciocco da costruire su un terreno non suo. Quindi dev’essere senz’altro suo. Proceda”. Non a caso il motto di Ayamé è Res non verba, fatti non parole».
Lasciare 2 milioni di euro agli africani, anziché ai propri figli, non è da tutti.
«Henry Ford dovette sostenere una causa contro i suoi discendenti.

“I miei eredi”, disse, “non sono i miei i figli ma gli Stati Uniti d’America, che sono più grandi della famiglia”».
Così parla un viceré.
«I miei figli approvano, ne sono sicuro».
(576. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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