La leggenda del finto martire tra compensi d’oro e privilegi

Sgombriamo subito il campo, almeno quello magnetico, dagli equivoci. Se di divorzio o, quantomeno di separazione consensuale si tratta, anche il più micragnoso di noi dovrebbe ammettere che, con due milioni e mezzo di euro di buonuscita dalla Rai, Michele Santoro non sarà costretto ad aprire, d’ora in poi, solo scatolette di tonno. E quand’anche fosse allergico al tonno, come lo è all’obbiettività, a riempire il suo frigorifero, sì quel frigorifero dove, si vocifera tenga i ghiaccioli a forma di Silvio Berlusconi per fargli squagliare poi sotto l’acqua bollente, ci penseranno, comunque, adeguatamente nel suo prossimo futuro i vivandieri di La7.
Se invece il discorso, come leggiamo su giornali asettici come l’Unità, la Repubblica, il Fatto etc, imbocca la strada delle beatificazione del video martire Michele, allora la faccenda merita qualche riga di disquisizione. Michele l’intenditore non diventa martire oggi che lascia la Rai e finisce di dire quello che ha sempre detto con i soldi del nostro canone.
Non lo diventa per un motivo semplicissimo: perché, per dirla proprio sinceramente, ha sempre cercato di farsi passare per martire pur facendo sempre gli stracomodi suoi.
Mettendo sotto accusa presidenti del Consiglio, Papi di Vaticano e papi di Arcore, facendo causa alla Rai e ritornandoci a lavorare per ordine del pretore. Mandando vaffa in diretta il direttore Rai medesimo e pretendendo addirittura le sue scuse (storia del gennaio scorso risolta con una timida sospensione per dieci giorni per il conduttore). E ancora: candidandosi, nel nome della sua solita «battaglia per la libertà di informazione» come parlamentare europeo nel 2004 per la lista di Uniti nell’Ulivo di Romano Prodi. Incassando l’elezione, rimanendo un anno a far politica, per poi decidere di tornare in video a (sua) grande richiesta, giusto per partecipare alla prima puntata del programma televisivo Rockpolitik condotto da Adriano Celentano.
Andiamo, per favore, vi sembra un martire uno così? E quella storia dell’«editto bulgaro» che si prese da Sofia, da un Berlusconi giustamente infuriato per il modo tutto santoresco di far tv? Il «martire» rimase così contrito che nella puntata di Sciuscià del giorno successivo, per protesta aprì la diretta anziché con il solito signore e signori buonasera, intonando il canto partigiano Bella ciao. Allontanato dalla Rai per questa e altre sciocchezzuole il «martire» fece puntuale causa all’azienda pubblica (ma i martiri fanno causa contro il martirio?) e nel 2005 il giudice del lavoro del Tribunale di Roma gli diede ragione condannando la Rai a un risarcimento danni pari a un milione e 400mila euro e ordinandone la reintegrazione per programmi di prima serata.
Cosi nel marzo del 2006 gli viene affidato un nuovo programma televisivo di approfondimento incentrato sul tema politico del «dopo elezioni» dal titolo Annozero. Avrebbe dovuto durare undici puntate e invece è durato leggermente di più facendo un bel po’ di casino. E così lui Michele l’intenditore ha sempre giocato il ruolo del martire, si è compiaciuto nel cucirsi addosso il saio del perseguitato del fustigato, del reietto. Quel suo allargare le braccia abituale, come se si preparasse, da un momento all’altro alla crocifissione in mondovisione, quel suo peregrinare aventi e indietro per lo studio come se fosse indeciso se intraprendere o no il cammino che l’avrebbe condotto sul Golgota di Palazzo Chigi. Dove ad attenderlo per inchiodarlo avrebbe, ovviamente, trovato un Cavaliere nero. Il solito Cavaliere nero colpevole di tutte le malefatte, dalle guerre puniche in poi, evidenziate, acclarate, intercettate, sputtanate solo e sempre grazie a lui e agli altri due aspiranti martiri di Annozero. Che, uno leggendo il taccuino della spesa e l’altro disegnando vignette, continuano a sognare, inutilmente, di essere crocifissi accanto a Michele. Uno alla sua sinistra, e uno alla sua destra. Proprio come è già accaduto, duemila anni fa a qualcuno di vagamente più di noto di loro. Ma allora, sfortunatamente, non c’era la tv.
E se c’è non la tv, se non ci sono le telecamere e i microfoni di Annozero come i Santoro boys ci insegnano e ci hanno sempre insegnato, la notizia non è una notizia.

Far passare dunque il messaggio che Santoro si debba scrivere d’ora in avanti Sant’Oro (e non solo per le liquidazioni, le cause vinte, la buonuscita e il nuovo sfavillante ingaggio del suo nuovo editore Telecom) ci sembra francamente un po’ sporca. Meglio continuare a scrivere Santoro tutto attaccato. E ascoltare i suoi prossimi sermoni senza più tempestare la Rai di disdette e insulti per «leso servizio pubblico».

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