La leggerezza dell’uomo che crede nella poesia

Daniela Fedi

da Milano

Elogio della leggerezza e della qualità, del cambiamento e delle tradizioni, dei pazzi creativi che trovano coraggio nella poesia e di chi ancora crede nei grandi valori. C’era tutto questo nelle collezioni maschili per la prossima estate in passerella ieri a Milano. Questo più un po’ di sano tifo nazionale che ha fatto dire a Donatella Versace «se segnano i nostri durante la sfilata fermo i modelli ed esco a festeggiare». Non è stato necessario interrompere lo spettacolo della moda (il rigore della vittoria è arrivato dopo) ma la bionda signora del made in Italy stavolta ha segnato un goal memorabile alleggerendo l’uomo Versace di tutti gli orpelli degli anni Ottanta: aggressività, sessismo, muscoli allenati anche a dispetto dell’anima. «Che deve essere d’acciaio come il filo che attraversa i leggerissimi tessuti di questi nuovi vestiti» ha concluso Donatella poco prima di presentare una serie di capi più fluidi e confortevoli del solito. Strepitose le fantasie ispirate alle cosiddette «Stanze di luce» dell’artista americano Dan Flavin che utilizza i neon colorati per delimitare con una serie di porte della percezione lo spazio infinito dell’intimità.
Diversissima ma ugualmente inarrivabile per contenuti, ricerca e innovazione nella tradizione del formale, la collezione di Gianfranco Ferrè ha meritato in pieno il tifo da stadio tributato all’architetto-stilista. Solo lui poteva lanciare la «Homme couture», ovvero un modo artigianale di produrre industrialmente autentici capolavori come la giacca di seta che pesa a malapena 90 grammi pur essendo intelata secondo i sacri crismi dell’alta sartoria oppure come i nuovi jeans lavati, rotti e poi ingabbiati nell’organza che aggiunge valore e sapore al solito denim. Indimenticabili davvero le camicie-blouson oppure giacca in purissimo cotone bianco decorato a volte dai tagli sorprendenti, più spesso da quello che potrebbe essere definito il nuovo logo della maison: l’immagine dell’ombra di Ferrè nera ed elegante, impressa anche sui cammei di marmo che decorano tanto i sandali quanto le cinture. Insomma un’autocitazione gentile e ironica come quella che Hitchcock faceva nei titoli di coda dei suoi lavori. Alexander McQueen cita invece Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella e l’indimenticabile Morte a Venezia di Visconti per quella che senza dubbio è la sua miglior collezione maschile.
Svuotati da ogni peso ma riempiti di tutti i contenuti stilistici dei due film (colori chiari, forme pulite, estrema ricercatezza e pesi inesistenti) i capi di McQueen erano semplicemente perfetti. La stessa cosa si può dire di quelli del geniale Tomas Maier di Bottega Veneta. In più c’era un senso profondo della modernità che include il lusso tra i suoi valori, ma non ammette ostentazioni di sorta. Se tutti gli uomini si vestissero così il mondo sarebbe probabilmente un posto più assertivo.

La miglior prova della giornata arriva comunque con Antonio Marras che è riuscito a tradurre in moda la poetica follia di Dino Campana ai tempi del suo amore per Sibilla Aleramo pur creando una serie di capi altamente appetibili per il mercato. Camicie con i versi tratti dai Canti Orfici, un’antologia di pantaloni da smoking tramutati in calzoni da tutti i giorni e tanti splendidi gilet: meglio di così il nostro sardo preferito non poteva fare.

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