Economia

Lehman Bros: dopo i tossici, ecco gli asset radioattivi

Non solo asset tossici, ma anche radioattivi. Aggirandosi tra una scoria di sub prime e un cascame liquefatto di credit default swap, al curatore fallimentare di Lehman Brothers, l’unica banca d’affari Usa con pedigree pluricentenario lasciata andare a picco da Washington, è anche capitato di imbattersi in 450mila libbre di ossido d’uranio. Ovvero, in circa 220 tonnellate di un metallo che, se arricchito, è la «benzina» che alimenta un reattore nucleare. O, peggio, l’ingrediente necessario per cimentarsi in un fai-da-te della bomba atomica.
Naturalmente il carico radioattivo non è custodito nei caveau del quartier generale di Lehman, reso famoso dalla processione di dipendenti finiti a spasso, ma è stoccato in siti autorizzati. Gli esperti addetti alle pulizie dei bilanci della disastrata merchant bank stanno cercando da mesi di scaricare il tonnellaggio radioattivo che, rispetto ai toxic assets, per lo più illiquidi e dunque sostanzialmente equivalenti a carta straccia, un valore ancora ce l’ha. L'uranio, come una qualsiasi commodity, viene infatti anche commercializzato nei mercati aperti (per esempio alla Borsa di Amsterdam), e come tutte le materie all'ingrosso si contratta privatamente. Con una sostanziale differenza rispetto al petrolio, al rame, o all’alluminio: gli acquisti sono strettamente regolamentati dai governi, così come venditori e compratori fanno parte di un gruppo selezionato accuratamente. Secondo alcune ricostruzioni, Lehman aveva ottenuto la speciale licenza per trattare l’uranio un mese prima di dichiarare bancarotta. «Ciò che preoccupa - spiega un esperto del settore - non è tanto l’approvvigionamento di uranio, quanto la capacità di arricchirlo. Per questo motivo esiste una ferrea contabilizzazione degli stoccaggi ed è vietato il trasporto libero del materiale».
Ciò non ha impedito all’uranio di conquistare in anni recenti un posto al sole nella speciale classifica dei prodotti a più alto contenuto speculativo. Il motivo? L’aumentata domanda mondiale, a cavallo tra il 2001 e il 2006, legata alla corsa per la costruzione di nuovi reattori nucleari (28 cantieri inaugurati tra il 2000 e il 2005, su un totale di 442 reattori esistenti nel 2006). Dopo il periodo nero degli anni Novanta, indotto dal surplus di offerta provocato dallo smantellamento delle centrali russe in seguito ai trattati per la non proliferazione nucleare firmati con gli Usa (1995), le quotazioni erano così schizzate dai 6,7 dollari del 2001 fino al picco storico di 138 dollari per libbra toccato nel giugno 2007. Poi, i prezzi hanno ripreso a flettere fino a scendere a 40 dollari o poco più. Da un lato, infatti, la recessione ha compresso inevitabilmente la richiesta di uranio; dall’altro, ha stimolato i fondi a corto di liquidità a sbarazzarsene per reperire risorse fresche. Goldman Sachs e Jp Morgan stimano che fino al 2011 i prezzi non supereranno i 50 dollari.
Lo scenario di mercato al 2030, quando saranno 630 i reattori nucleari per la produzione di energia elettrica distribuiti in 55 Paesi contro i 440 in funzione oggi in 31 nazioni, potrebbe essere radicalmente diverso.

Vent’anni sono però un lasso di tempo ovviamente irragionevole per i curatori fallimentari di Lehman, che valutano in 18 milioni di dollari le 450mila libbre e contano di venderle gradualmente nei prossimi due anni. Ma, comunque vada, la «torta gialla» (l’uranio viene chiamato yellow cake) risulterà alla fine molto meno indigesta di una cartolarizzazione altamente contaminata.

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