Cultura e Spettacoli

Lem, un giallo alieno nella nebbia di Londra

Misteriose sparizioni di cadaveri e un’ipotesi inquietante

Intervistato nel 1954 dal New York Times Book, Ernest Hemingway ebbe a dire en passant: «Uno scrittore dovrebbe sforzarsi di scrivere una cosa in modo tale da farla diventare parte dell’esperienza di coloro che lo leggono». Un esempio? Eccolo: «Sapete com’è la mattina presto là all’Avana, coi vagabondi che dormono ancora contro i muri dei palazzi, prima che arrivino i furgoni col ghiaccio per i bar?». Be’, non si tratta soltanto dell’avvio da urlo di Avere non avere. È proprio un prodigio: siamo lì, vediamo, siamo col fiato sospeso per quel che sta accadendo.
Il fatto è che di Hemingway ce n’è uno solo. In compenso, scrittori ce ne sono a non finire: buoni, mediocri e, certuni, proprio negati. Eppoi, ci sono scrittori d’indole indisponente che, giusto per mettere in difficoltà lettori troppo arrendevoli, scrivono cose forse ingegnose - trame intricate, personaggi improbabili, situazioni balzane, epiloghi inconcludenti - tutte giostrate con un lessico formalmente chiaro e, invece, in buona sostanza attorcigliate tra luoghi comuni, vieti stereotipi, risibili schemi che, a conti fatti, hanno per solo scopo l’imbastire ingarbugliati canovacci.
In quest’ultima schiera di scrittori risaltano alcuni che, sorprendentemente, palesano doti, risorse stilistiche anche garbate, senza che per questo le loro cose possano essere accreditate come apprezzabili momenti creativi. Ebbene, tra questi scrittori di buona mano, ma di idee sterili crediamo sia da collocare persino un nome che, per tanti versi meritori, si è imposto a suo tempo per ben precise, consistenti gesta letterarie. Parliamo del polacco Stanislaw Lem (1921-2006) che, accreditato a giusto titolo di una buona fama di autore di libri di fantascienza di originale spessore fantastico-filosofico (suo è Solaris, portato sullo schermo da Andrej Tarkovskij) e di molti altri scritti di intenso sostrato metaforico (L’ospedale dei dannati), se ne esce nel 1958 con un «giallo» alla moda della più convenzionale letteratura inglese del genere intitolato L’indagine dell’ispettore Gregory (Bollati Boringhieri, pagg. 248, euro 18, traduzione dal polacco di Vera Verdiani) ove tutte le querimoniose vicenduole poliziesche prima lamentate si mischiano a prolissi conversari, scorci e spunti abusati, ipotesi bislacche e quel che salta fuori da troppe pagine è un desolato nulla.
In estrema sintesi, il plot dell’Indagine si riassume in poche parole: in un canonico endroit tipicamente «vecchia Londra» (nebbia, quartieri e ambienti in degrado, poliziotti sagaci e altri un po’ tonti, scienziati maniacali, ecc.) di giorno in giorno si verificano sparizioni di cadaveri di povera gente. Un solerte ispettore di Scotland Yard indaga, coadiuvato da un tenente piuttosto disorientato. Man mano che passa il tempo - spesso in riunioni e dialoghi insensati - il mistero, anziché stemperarsi, s’ingarbuglia sempre più. E altri cadaveri continuano a scomparire.
Tra le tante chiacchiere insulse che sfrigolano in questi frangenti viene ventilata l’ipotesi che l’intrico sia provocato da non meglio definiti «alieni» motivati dall’ossessione di capire come sono fatti davvero questi strani esseri umani. Ovvia di lì a poco la smentita: una simile spiegazione non regge. Allora Stanislaw Lem ricomincia da dove il proprio racconto aveva preso le mosse: il menzionato ispettore e il più che mai disorientato tenente si trovano a sancire che non c’è niente da fare, niente da capire. Siamo e restiamo nella nebbia fonda. Sbalorditi e delusi.

Irrimediabilmente.

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