Leoncillo Leonardi e quell'antica ansia di modernità

Con Burri e Gnoli compone il trio dei grandi umbri del Novecento

di Vittorio Sgarbi

Singolare destino geografico che tre fra i più grandi artisti del Novecento italiano, nella più difficile seconda metà, quando l'Italia sembra uscire dalla carta geografica dell'arte internazionale, siano umbri: Alberto Burri di Città di Castello, Leoncillo Leonardi di Spoleto e Domenico Gnoli di Monteluco di Spoleto. L'Umbria era stata il centro del mondo fra Duecento e Trecento, con quel vero e proprio continente che è la Basilica francescana di Assisi dove, da Cimabue a Giotto a Pietro Lorenzetti a Simone Martini a Stefano Fiorentino, si era creata la nuova lingua della pittura moderna. Vero che anche nel Quattrocento e nel Cinquecento l'arte umbra ha un particolare rilievo ma, indubitabilmente, decade a partire dalla fine del Cinquecento. Per questo, nel secolo in cui sembrano uscire dagli schemi di un'arte provinciale soltanto Milano e Roma, l'affermarsi di alcuni artisti internazionali, a partire dagli anni '50, non nelle tradizionali capitali dell'arte italiana, Venezia, Firenze, Roma, ma in Umbria, e con un riconoscimento così ampio e universale, merita una riflessione. In fondo artisti come Soffici, Rosai e Carrà erano stati gli emblemi di Strapaese in una formidabile euforia provinciale e toscana che ha scavalcato le avanguardie, mentre de Chirico, Morandi e Sironi hanno rappresentato, nel dopoguerra, fenomeni di individuale resistenza creativa, talvolta sublimi, espressione di creatività matura nell'autunno di quei talenti.

Diverso il caso di un'urgenza creativa delle nuove generazioni che si afferma nei tre artisti sopra citati. Di Burri e di Gnoli abbiamo detto o diremo. Di Leoncillo possiamo riscontrare un'evoluzione formale analoga a quella di artisti come Afro, Mirko, Capogrossi, lo stesso Fontana che, partiti da una esperienza figurativa (e, nel caso di Leoncillo, mirabilmente decorativa) arrivano a una astrazione ontologica o traumatica. L'astrazione di Leoncillo è di diversa specie: agìta soprattutto con la terracotta e con la ceramica, essa ha un carattere naturalistico, con una energia e una pulsione tellurica come concrezione di lava in cui senti ancora il calore del fuoco. È questa percezione di una ferita che rende così forte e traumatico il linguaggio di Leoncillo. La sensazione di una lacerazione, il dolore di una rottura, caratterizzano la maturità di Leoncillo, non senza una oscura e segreta inquietudine religiosa. Nel suo Piccolo diario scrive: «Creta, creta mia, materia mia artificiale, ma carica per metafora di tutto ciò che ho visto, amato, di ciò a cui sono stato vicino, delle cose che ho dentro, con cui, in fondo, mi sono, volta per volta, identificato».

In Leoncillo c'è, dopo gli inizi coltivati con il grande Angelo Zanelli e le prime esperienze con gli artisti della scuola romana che lo portano, nei forni delle ceramiche Rometti, a realizzare opere oniriche come l'Arpia, la Sirena e l'Ermafrodito, un'ansia di modernità che lo distacca rapidamente dalle esperienze degli anni Quaranta sotto l'egida di Gio Ponti con il grande sardo Salvatore Fancello e Fabrizio Clerici. Una necessità di dare un senso all'arte contro la barbarie: questo soprattutto significa la militanza antifascista di Leoncillo a fianco della brigata Garibaldi. Ne è emblema la Madre romana uccisa dai tedeschi del 1944, l'anno in cui Leoncillo entra a far parte dell'organizzazione militare clandestina del Partito comunista italiano. Con la fine della guerra si annichilisce in lui la figurazione di cui era stata campione una Balaustra paragonata da Antonello Trombadori alle ceramiche di Della Robbia. È Moravia a intercettare questa fase evolutiva: «Leoncillo ha prestissimo superato le prime posizioni naturalistiche, obbligatorie per ogni artista serio, poiché l'artista è, prima di tutto, un imitatore della natura. Ma oggi Leoncillo, sempre più scavando nel fondo della sua ispirazione, pare tendere ad un raccoglimento e ad una semplificazione che lui, nei suoi discorsi sull'arte, chiama astrazione. Sono le cose sue migliori, comunque».

Nel '49, dopo aver partecipato alla Biennale di Venezia del 1948, viene presentato, a Firenze, da Roberto Longhi. È ancora alla Biennale nel '52, nel '54 (a fianco di Lucio Fontana), nel '60 e nel '68. Anche nei monumenti civili, a partire dalla metà degli anni '50, si muove verso un'astrazione drammatica incrociata con memorie cubiste. Nel 1956, in seguito a una profonda crisi ideologica, contro la linea filosovietica di Togliatti, si dimette dal Partito comunista e inizia una tormentata revisione del suo lavoro dell'ultimo decennio; abbandona il cubismo per volgersi ad esperienze informali, stabilendo una «via italiana» all'informale: colate di ceramica nei colori primari (bianco, nero, rosso) caratterizzano le sue sculture, dando luogo a figurazioni percorse da solchi o tagli netti. La natura allude ad alberi folgorati, a sconvolgimenti tettonici, ma natura è anche figura umana, quindi corpi martoriati, crocifissi, mutilati. Nel '57 espone alla Galleria «La Tartaruga» di Plinio De Martiis; la nuova produzione è definitivamente orientata in senso informale. Nell'autopresentazione in catalogo esprime le ragioni profonde della sua adesione all'informale. È questo il momento più alto e drammatico di Leoncillo. Egli ne è perfettamente consapevole, oltre la figurazione e, ormai, anche oltre l'astrazione. « Ma è solo dopo aver visto qualche cosa, magari tanti anni fa, che sento il bisogno di parlare: la pelle lucida e umida di un albero giovane dove poi ci sono tutti buchi scuri, o il nero che sta dietro la casa e che viene invece davanti dopo aver girato dappertutto, o una figura che la luce gli distrugge tutto il volto ed ha delle ombre sottili che gli scorrono addosso come rigagnoli. Tutte queste cose le capisco bene. E quando ho visto questo, l'immagine viene dentro e prende la faccia di tutti quei sentimenti esaltati che ci agitano sempre, e prendono il senso della gioia esultante che vorremmo, o della nostra tenerezza ferita o dello scuro e fermo riposo ove vorremmo avere pace. E ora si tratta di trovare una forma uguale a questa immagine, una forma, un colore, una materia».

Partecipa alla mostra «Sculture nella città», a cura di Giovanni Carandente, al Festival dei due mondi di Spoleto. Si sente in sintonia con i tempi di crisi, di protesta, anche degli artisti più giovani. Nel 1968 è presente con una sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia in cui espone opere dell'ultimo decennio; ma copre le sue sculture con teli di plastica in segno di adesione alle proteste dei giovani artisti. Muore di infarto nella sua automobile in quello stesso anno, a 53 anni.

Ne hanno condiviso sensibilità e passione i critici con i quali io mi sono formato: Francesco Arcangeli, Cesare Brandi, Giovanni Carandente, Giulio Carlo Argan. È stato lo scultore degli anni difficili, della sensibilità inquieta.

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