Michele Anselmi
da Roma
Alle tre del pomeriggio di ieri Marco Müller è partito per uno dei suoi viaggi di ricognizione in cerca di film. Destinazione: Asia ed Europa dell'Est. «Quattro paesi in nove giorni. Roba da farci sopra un film», scherza. Poi tornerà a Parigi. Più in là volerà negli Stati Uniti per il bottino finale. Al cda della Biennale, riunito per ascoltarlo sullo stato della selezione, il direttore della Mostra del cinema di venezia aveva appena confermato che Catherine Deneuve sarà presidente della giuria. Nella quale siederà, per l'Italia, l'attore-regista Michele Placido.
Bel colpo la Deneuve: personalità glamour e autorevole. A Cannes seppe tenere testa pure a Clint Eastwood.
«Volevamo una superdiva. L'abbiamo avuta. La giuria della 63ª Mostra è completa, manca solo una conferma».
Come si profila il raccolto?
«Ricco. Molti dei film asiatici che non erano pronti per Cannes lo saranno per Venezia. E poi sono ottimista sul fronte americano. A luglio inoltrato vedrò World trade center di Oliver Stone, che anche la Paramount dà a Venezia. Mancano ancora gli effetti speciali. I titoli possibili li sapete. House of the brave di Irwin Winkler sulla guerra in Irak, il noir Dalia nera di Brian De Palma con Scarlett Johannson, Children of men del messicano Alfonso Cuaron con Julianne Moore, dal romanzo di P. D. James».
Niente Miami Vice?
«Michael Mann, dopo Collateral, l'avrebbe portato volentieri al Lido. Ma esce tra luglio e agosto in tutta Europa. Peccato».
Leone alla carriera: David Lynch. Tutto tranquillo?
«Sì, ovviamente decide il Consiglio d'amministrazione. Lynch sta montando il suo nuovo film, Inland Empire, ci parliamo spesso. Averlo a Venezia in prima mondiale sarebbe bello».
Lo stato dei lavori?
«Un terzo della selezione già confermata».
Addirittura. I cugini francesi fanno le bizze?
«Non direi. Abbiamo bloccato due cose grossissime. Di cui ovviamente non dirò niente».
Azzardiamo: la commedia Petites peurs partagées di Alain Resnais. E il nuovo film in costume di Eric Rohmer.
«L'ha detto lei».
E la pattuglia italiana? In genere sono dolori. La stella che non c'è di Gianni Amelio è dato per certo. Al pari di La porta d'oro di Emanuele Crialese.
«Con l'Italia io e miei selezionatori stiamo preparandoci ad affrontare la classica settimana di fuoco, dal 25 giugno al 3 luglio. Il film di Crialese non è terminato. Anche lì manca un effetto speciale costoso: per vederlo dobbiamo aspettare la scena».
Poi ci sono I cento chiodi di Olmi.
«Potrebbe fare una fine veneziana, certo».
Come A casa nostra di Francesca Comencini.
«Naturalmente. Valeria Golino, l'ha confermato anche il David di Donatello, è in uno stato di grazia. Sono curioso da morire. Mi dicono che sia la versione più dura di Mi piace lavorare. Ma aspetto di vedere anche Viaggio segreto di Roberto Andò».
Se fosse pronto, prenderebbe il Monicelli di Le rose nel deserto, sulla guerra d'Africa?
«Di corsa. Il cinema è una categoria dello spirito, che prescinde dall'età. Come potrebbe Venezia dimenticare il nostro De Oliveira?».
Si parla di una versione restaurata di Yuppi Du presentata da Celentano.
«Discorso aperto».
Gli italiani rischiano a Venezia?
«Finché non sarà rifondato l'atteggiamento di critici e giornalisti. Non ci si può basare sugli applausi alle anteprime per stampa. Sbagliato applicare alla Mostra le regole dell'Auditel».
Raicinema e Medusa: equilibrio delicato?
«La selezione non la facciamo con le caselle dei distributori assegnate in precedenza. Scegliamo i film in base a criterio di rilevanza artistica. Purtroppo Tornatore mi ha già detto che con La sconosciuta non andrà a nessun festival. Mentre mi pare ormai assodato che N. Voglio uccidere il tiranno di Virzì e Lezioni di volo dell'Archibugi debutteranno al festival di Roma».
Già, Roma: un bel problema per voi. Più soldi, più sale, più tutto.
«Non mi farà polemizzare con Veltroni. Faccio un altro ragionamento. I festival, per fare bene ai film, devono creare uno spazio nel mercato, perché quei film escano bene, ad esempio in autunno. Da questo punto di vista, i due soli festival ad avere le date giuste sono Toronto e Venezia. Organizzarne uno a metà ottobre significa battersi con quelle macchine schiacciassi che sono i film natalizi. Aspetto di capire di più. Ma sono tranquillo. Con l'eccezione dei due titoli italiani sopra menzionati (e vedo già i titoli sul presunto "scippo"), a noi resta il diritto di prelazione».
Con Rutelli ministro ai Beni culturali come si sente: più o meno garantito?
«Credo che Rutelli abbia fatto una scelta precisa. Ha voluto quel ministero per rilanciarlo. Non posso che fargli gli auguri».
Se fosse stato giurato a Cannes avrebbe tifato per Almodóvar o Loach?
«Con Almodóvar in concorso bisognava lavorare perché avesse un riconoscimento. Dal punto di vista del gusto personale, trovo i film di Loach e Almodóvar belli e forti, ma ripropongono temi e opzioni stilistiche noti. Io avrei tifato per Babel di Iñárritu».
Una volta per tutte: The New World di Malick fu davvero in predicato per Venezia, l'anno scorso? O fu una bufala?
«Era vero.
Dica la verità: avrebbe mai aperto Venezia con Il Codice da Vinci?
«Chiaro. Una scelta obbligata per un festival. Al di là di meriti o demeriti del film».
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