Non c’è da meravigliarsi se nel Mezzogiorno non si spendono i soldi Ue. Quelli devono servire alle infrastrutture, alle grandi opere, a tutto quello che al Sud manca ma che il Sud non vuole. O meglio, lo vorrebbe. Non però come bisogno primario, ma semplice ciliegina sulla torta.
I meridionali che credono in sé, vanno altrove. Gli altri restano e si affidano al gratta e vinci. Se chiedete cosa vogliono non diranno treni o strade ma, al 99 per cento, sperano in un impiego pubblico. «A me, deve badare lo Stato», intendendo che «deve» accompagnarli alla pensione. Dopo ci pensa l’Inps. E cos’è lo Stato al di sotto del Garigliano? È il deputatino di zona, l’assessore di turno e qualsivoglia altra Eccellenza. È lui il salvatore che in cambio del voto deve farti sopravvivere. Questa perversa simbiosi tra cittadini e politica è la chiave delle distorsioni del Mezzogiorno.
Il meridionale ha un rapporto viscerale col suo leader. Da lui si aspetta tutto e vuole averlo accanto. Egualmente l’altro cerca il contatto con l’elettore senza il quale non esisterebbe. Il do ut des è alla base del sistema. Se c’è chi ha un legame di pancia con il sistema elettorale delle preferenze questo è il Mezzogiorno. Andare a braccetto col proprio deputato, piombargli in casa la domenica, coincide con la speranza stessa di un domani migliore. Terribile essere un eletto del sud: non hai pace, né vita privata. Casa Mastella a Ceppaloni (Benevento) è sempre aperta, di giorno e di notte. Se è la stagione dei peperoni, Clemente e la consorte, Donna Sandra, ne ricevono in omaggio dall’elettorato rurale e li ridistribuiscono a quello cittadino in un baratto virtuoso tra solanacee e futuri voti. Salvatore Cuffaro che oggi è in carcere (gli auguriamo pronta uscita) a tirare il fiato, da libero non aveva pace. Vasa vasa si metteva a disposizione dell’elettorato palermitano dalle sette di mattina al tavolino di un Caffè che era il suo ufficio autentico. Riceveva questuanti, prometteva interessamenti, chiedeva voti e baciava tutti.
Nonostante l’attuale legge elettorale, con l’abolizione della preferenza, abbia interrotto questo rapporto diretto eletto- elettore, nel Sud l’immedesimazione è rimasta. Da una parte è buona cosa perché è un’ancora di salvezza, dall’altra impigrisce gli spiriti (distogliendoli dal fare da sé) e favorisce l’ingresso in politica dei gruppi criminali. Infatti, purché prometta benefici, si potrebbe chiudere un occhio e spedire a Montecitorio anche un farabutto. Già l’irpino ottocentesco, Francesco De Sanctis, quello - per chi ha ancora i ricordi del liceo - della Storia della Letteratura italiana, ammoniva sui pericoli delle preferenze. Candidato alla Camera nello stesso collegio che poi sarà di don Ciriaco (De Mita), De Sanctis si avvide che la tendenza meridionale al voto di scambio avvantaggiava coppole e guappi. Con altruistico spirito risorgimentale, ha messo in guardia i posteri dalle preferenze nel suo Viaggio elettorale, ignorato però dagli attuali fan illetterati (da Casini, all’urlante Di Pietro) della riforma elettorale.
Parlando abbiamo trascurato l’interrogativo di partenza: perché il Sud non spende i soldi Ue? C’è, certo, l’incapacità di fare progetti che passino il vaglio della Comunità, ma al fondo, c’è il rapporto che ho descritto tra elettore ed eletto. La situazione è questa. Il cittadino chiede al politico di aiutarlo a sbarcare il lunario. Il politico lo accontenta per garantirsi la rielezione. E addio ulteriori ambizioni. Invece, di progettare opere collettive - ponti, strade, dighe -, la politica rinuncia ai fondi Ue che servono a questo, e si ingegna a distribuire stipendi pubblici, piccole elemosine, lavoretti fittizi. Per finanziare porcheriole, il politico dilapida i soldi dello Stato e persegue un miserevole giorno per giorno, che perpetua i ritardi del Sud. Così, i leader si mantengono al potere non per meriti ma per le clientele. Anziché mettere alla base della loro rielezione una costruzione duratura, la conquistano grazie a liberti stipendiati, centurie di mantenuti, legioni di disoccupati indaffarati nel nulla. Con il risvolto ancora più curioso che quanto più sono populisti, tanto più sono popolari.
’O Re di Napoli, Bassolino, detto Cacaglio per la giovanile balbuzie, è durato politicamente tre lustri, il doppio di De Gasperi. «E ha lasciato un pugno di mosche», direte voi. Magari. Ha messo la città in ginocchio, sopraffatta dalla camorra, povera in canna e l’immondizia alla porta. Eppure per quattro volte è stato rieletto trionfalmente. Grazie al sistema cacaglio: tremila consulenti della Giunta comunale, altrettanti in Regione; sussidio per 30mila «indigenti» di 500 euro il mese; spazzini assunti per non spazzare. Un piacerino a destra (Sandra Mastella, eletta grazie a lui in Regione), mille a sinistra. Fino all’inaugurazione del Palazzo della Regione a New York, angolo V Avenue, con Isabella Rossellini come madrina.
Ai napoletani questo figure cesaree piacciono da matti. Cominciarono nel dopoguerra con Achille Lauro, ricco armatore e famoso amatore, che promise mari e monti e non fece niente salvo il sacco edilizio della città (film di Rosi) e garantirsi le rielezioni con un sistema sopraffino. Al potenziale elettore consegnava la metà di una banconota da diecimila lire con la promessa dell’altra metà dopo il voto. Idem con le scarpe: subito la destra, all’uscita dall’urna la sinistra. Grazie al marchingegno raccolse 680mila preferenze, mezza città.
Oggi, abbiamo Vendola che fa solo danni e rischia di andare a Palazzo Chigi. È il tipico eroe meridionale, belle parole, grandi abbracci, clientele a iosa. Di duraturo niente. Anche l’orecchino fa brodo perché intenerisce. Come trent’anni fa piaceva da Napoli al Lilibeo lo stile uomo di panza di Gava: sigaro in bocca, anello col brillante, l’unghia lunga del mignolo per grattarsi l’orecchio.
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