Cultura e Spettacoli

"Letteratura d’inchiesta? Ormai ci ha narcotizzato"

Intervista con Walter Siti, che ama le borgate romane ma non i cliché dello "scrittore di denuncia"

Un castoro. Per Walter Siti, critico e narratore italiano tra i più significativi degli ultimi anni, lo scrittore non è altro che questo. «Quando la diga costruita sul fiume non regge più, ogni castoro si danna finché non trova una soluzione e non tappa tutti i buchi - spiega -. Faccio così anch’io: quando sento che qualcosa del mio profondo è a rischio, mi invento parole che prima non pensavo di avere. La creatività è in fondo questione di sopravvivenza».

In partenza per Sarzana, che da oggi e per tutto il fine settimana ospita il Festival della Mente, rassegna culturale dedicata ai processi creativi, Walter Siti - alle spalle successi letterari come Il contagio (Mondadori) e curatore delle opere di Pasolini per i Meridiani - è l’antitesi dell’intellettuale radical-chic. Provinciale (è nato a Modena sessant’anni fa) trapiantato con gioia a Roma, ammette di vivere una tranquilla esistenza «da morto di fame di fascia alta» (leggi: scrittore con amici che contano). È uomo dagli appetiti onnivori: divora Proust, ma anche la tv. Ha infatti lavorato, e non fatica ad ammetterlo, come autore del programma Al posto tuo condotto da Alda d’Eusanio (per molti emblema del trash, per Siti «emblema del finto vero» che tanto lo affascina). Siti, per non farsi mancar nulla, si è a suo tempo interessato con scarso intellettuale distacco anche alle vicende del Grande Fratello e di Pietro Taricone («O’ guerriero», ricordate?). L’esperienza delle sue frequentazioni televisive è finita dritta dritta nel romanzo Troppi Paradisi (Einaudi) ben prima di vallettopoli mentre dalle sue frequentazioni borgatare sulle orme di Pasolini («Ho fatto coming out trent’anni fa», ha dichiarato) nasce Il contagio, realistico (e impietoso) ritratto delle periferie di oggi.
Ed è da qui che partiamo, dal realismo. Parola che Siti non ama particolarmente, ma che domani sarà oggetto del suo incontro con il pubblico del Festival.

Walter Siti, perché in libreria si vendono solo docu-romanzi e al cinema si guardano solo docu-film?
«Premesso che esistono corsi e ricorsi storici e che dopo un eccesso di formalismo, che ha caratterizzato gli anni Novanta, era prevedibile un ritorno alla ricerca di contenuto, direi che negli ultimi anni si è rimessa in moto la storia. Dall’11 settembre al profilarsi di una nuova Guerra fredda, si sono moltiplicati i fatti che stimolano la narrazione. Mi preoccupa però che sul piano espressivo si confonda questo fenomeno con una sorta di neo-neorealismo».

Che cosa intende?
«Se è vero che c’è maggiore curiosità e necessità da parte del pubblico di comprendere l’attualità, molta della letteratura odierna mi pare investita dal cliché neo-realista che si muove per stereotipi. Come per un capolavoro quale Paisà abbiamo avuto tanti Poveri ma belli, mi sembra che oggi si assista al proliferare di una “scuola di mafia” in letteratura per cui, dopo il successo di Gomorra, i romanzieri intendono occuparsi solo di mafia, camorra e così via. Come se realismo volesse dire parlare della magagne della società...».

Si tratta, almeno nelle intenzioni, di letteratura civile.
«E invece, paradossalmente, si trasforma in qualcosa di rassicurante, funzione non certo propria di una letteratura che vorrebbe inquietare le coscienze».

Trova rassicuranti le descrizioni di Saviano o le scene di Gomorra girate da Garrone?
«Per certi versi sì, perché non mi colgono in contropiede, perché non sono completamente inaspettate. Se sto a Vicenza e leggo Gomorra, mi sento sicuro a sapere che nulla di ciò che è descritto accade sotto casa mia. Il vero realismo è quello che ti fa vedere ciò che non hai mai notato, ciò che nemmeno sospetti. Rimanendo a Gomorra, realistica non è l’uccisione spietata dei boss, ma l’innocenza della vecchia donnina che, nel film di Garrone, dona una cassetta di pesche ai camorristi e non sa che loro le getteranno via perché sono avvelenate».

C’è chi dice che il romanzo contemporaneo non può che avere una vocazione realista.
«Non so se sia questa l’unica strada. Rispetto alla poesia, che è il linguaggio degli dei, il romanzo si è qualificato da sempre come genere mediocre, un po’ da signorine. Ma io amo quel suo avere un piede nell’attualità e un piede nell’assoluto: trovo che sia uno straordinario strumento di conoscenza. Non a caso la scienza e il romanzo moderno nascono in contemporanea come due modi diversi e complementari di comprendere il reale. La prima si basa sul principio di non contraddizione, il secondo, come dimostra il Don Chisciotte, sull’obbligatorietà della contraddizione. Questo perché il romanzo ingloba tutto».

Alcuni non le perdonano di aver inglobato, nel Contagio, lo squallido mondo delle borgate romane.
«Squallido? A me non sembra. È un mondo umano. Il realismo di certe pagine è frutto della ricerca di qualcosa che nemmeno io sapevo. È l’inaspettato».

Non esistono più i ragazzi di vita di pasoliniana memoria?
«Esistono quarantenni palestrati secondo le leggi di Men’s Health. Giovani dalla vitalità apparente, privi della voglia di vivere e dell’innocenza dei ragazzi di Pasolini: oggi i borgatari vendono la loro immagine, forgiata secondo i canoni della tv, più che se stessi. All’epoca c’era la fame che giustificava qualsiasi cosa, ora che la fame non c’è più, si assiste al crollo verticale del senso della vita».

Nemmeno un barlume di speranza?
«Non sono io la persona adatta a coglierlo».

Che cosa rimane di Pasolini, oggi, nelle borgate romane?
«Poco. È diventato un’icona pop ed è letto pochissimo. Eppure fu lui ad anticipare il concetto di omologazione tra cultura alta e cultura bassa, a intuire quel pastone che oggi si è realizzato tra ideali borghesi e del sottoproletariato».

Quell’epoca, quella degli anni di piombo, è diventata frequente oggetto di narrazione nei cosiddetti «romanzi terroristi», suscitando su queste pagine un dibattito tra i sostenitori del genere, come Erri De Luca, e i detrattori, come Michele Brambilla. Che cosa ne pensa?
«Fiction e racconti sugli Anni di piombo sono sempre proposti dai protagonisti dell’epoca, come Battisti o Moretti. Questo, forse, perché si è trattato di vicende che hanno coinvolto gruppi ristretti della società. Trovo più interessanti i lavori di carattere memorialistico, come quello di Alberto Franceschini (Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle B.R.

, ndr), rispetto alle opere di finzione che mi paiono tentativi all’acqua di rose di descrivere un fenomeno così complesso e, francamente, romanzi troppo auto-giustificatori».

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