Sarà per le voci che girano e ripetono tra sussurri e grida che il tempo dei giornali è finito, sarà perché rimanere in edicola soltanto un giorno o una settimana è davvero una conquista troppo effimera per chi voglia lasciare un segno con le parole, fatto sta che da qualche tempo il giornalismo di tendenza americano - che da sempre vuol dire il giornalismo che prima o poi farà tendenza in tutto il mondo - si fa chiamare new new journalism e non è più fatto di giornalisti, appunto, ma di autori. Lo spazio del reportage, anche lungo, non basta più. Ci vogliono centinaia di pagine, e per scriverle almeno qualche anno, per svolgere il tema, qualunque esso sia, e il giornalista si deve trasformare in un seguace del metodo Strasberg, con la fondamentale variante del distacco che si richiede alla professione. Immedesimazione totale e insieme freddezza tattica: il giornalista deve registrare gli eventi senza influenzarli e trasmetterli al lettore in un'assenza di stile così algida da sfiorare l'indifferenza.
Al contrario del new journalism, codificato da Tom Wolfe nei primi anni Settanta, il new new journalism viene definito nel libro omonimo di Robert Boynton la «letteratura del quotidiano» o anche «la corrente narrativa che scorre sotto il fiume della realtà», il cui padre fondatore è il Gay Talese di Onora il padre. Estensione del reportage nel tempo - anche un decennio, stile «informale, dichiarativo, volutamente inelegante», devozione all'immersione totale «vicino alla pelle» dei fatti. Ecco le peculiarità di questo nuovo genere giornalistico che non ha manifesti né scuole né gruppi ma che si è diffuso a macchia d'olio in parti diverse degli States in modo assolutamente casuale.
Ultimi esempi: Absolutely american di David Lipsky, il racconto di quattro anni trascorsi all'Accademia di West Point e Prisoners di Jeffrey Goldberg, resoconto decennale dell'amicizia del giornalista ebreo americano con il palestinese Rafiq, dalle prigioni israeliane a Washington.
Qualche anno fa venne tradotto da noi, con successo, uno dei primi esempi di questo new new journalism: Fast Food Nation di Eric Schlosser (Tropea). Per anni l'autore indagò la catena produttiva che porta dal manzo a un hamburger di McDonalds, visitò laboratori e allevamenti di bestiame, intervistò i commessi della patatina fritta e macellai. Quell'esperienza letteralmente esplose nello spazio in due puntate che il magazine Rolling Stone diede al pezzo di Schlosser, il quale ne ricavò uno dei saggi americani di maggior successo popolare degli ultimi anni e diede vita a un filone narrativo-documentaristico che sfornò tra gli altri il film Supersize Me - in cui Morgan Spurlock, a riprova delle reminiscenze dell'Actor's Studio, ingrassò come fece De Niro per Toro scatenato pur di raggiungere lo scopo, ovvero dimostrare assumendosi l'onere della prova che nutrirsi «esclusivamente» del junk food propinato dai vari burger shop distrugge la salute - e Il mondo non è in vendita, dell'agricoltore francese no global José Bové.
In questi giorni è arrivato in libreria un altro esempio di new new journalism. Una famiglia a caso. Amore, droga e guai nel Bronx, della giornalista del New York Times Adrian Nicole LeBlanc (Alet, pagg. 486, euro 16). Nato anch'esso da un lungo articolo per Rolling Stone che la reporter freelance stava scrivendo su un giovane ma micidiale spacciatore di droga del Bronx, George Rivera detto Boy George, il racconto si trasforma ben presto in un libro di oltre cinquecento pagine nell'edizione americana, frutto di oltre dieci anni trascorsi dalla LeBlanc in una comunità portoricana del quartiere più disagiato di New York, il luogo dove nel nostro immaginario collettivo persino i taxisti più spericolati si rifiutano di accompagnarti.
La LeBlanc si immerge totalmente nella realtà dei giovanissimi malavitosi del quartiere: Cesar, ragazzino a mano armata, l'esuberante Coco, adolescente sempre in cerca di distrazioni, con il lecca lecca perennemente tra le labbra e Jessica, dolcissima portoricana sedicenne, che emana sensualità da un corpo voluttuoso, crede che l'amore sia il miglior posto dove andare, vuole fidanzarsi a tutti i costi e rimedierà invece una vita di stenti, con cinque figli da tre uomini diversi, violenze e droga che la porteranno a tentare il suicidio.
Nella migliore tradizione del new new journalism, la LeBlanc dorme da Coco, nel quartiere, perché nemmeno lei ha i soldi per un albergo, e mangia insieme ai «soggetti» che osserva, contribuendo ogni tanto con cibo take away di McDonalds. Mai le prende la tentazione di aiutarli in qualsiasi modo, visto che lei stessa è al verde. La giornalista cerca accesso continuo all'intimità della gente che le offre ospitalità e non fa nulla per loro tranne scrivere. Ciononostante dichiara nelle interviste che Coco è diventata per lei «una famiglia».
Non saggio, perché non trae alcuna conclusione socio-psicologica sugli eventi, né fiction, poiché i fatti narrati sono dolorosamente reali; non biografia né autobiografia perché privo di sguardo critico e persino di contestualizzazione sociale, Una famiglia a caso sembra un interminabile articolo-reality il cui linguaggio, scansione, montaggio sono mutuati dal documentario e dal reportage fotografico. Il risultato è una spossante apnea verbale in un mondo che ha già altre volte e meglio parlato per immagini. Immagini che un linguaggio privo sia di pietas letteraria che della freschezza del pezzo di cronaca scritto «a sangue freddo» e «corpo caldo», congela e infeltrisce.
La stessa LeBlanc ammette che il libro nasce dalla paura di sfruttare male un'ottima storia scrivendone troppo in fretta e troppo poco. Il dubbio è che, parafrasando Voltaire, i new new journalist scrivano libri che sembrano articoli troppo lunghi perché non hanno il tempo di scriverne di brevi.
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