La letteratura ringrazia le pecore nere

Pecore. Per giunta nere. Sono un problema, è evidente. Cosa farne? Dove metterle? Chi se ne prende cura? Tutti le rifuggono. Figuriamoci poi chi le ha in famiglia: non vede l’ora di sganciarle, di dimenticarle, non riuscendo a sopportare che a fianco del proprio candido vello ce ne sia uno così corvino, che tutti i giorni ricorda a chi ce l’ha fatta, a chi ha avuto successo, l’esistenza della sfortuna, della debolezza e del fallimento, e magari anche di qualche scheletro negli armadi di famiglia. Pecore nere, dunque. Per giunta sotto lo stesso tetto. Esiste tragedia mondana più grande? Ne sa qualcosa Michael Douglas: prima il fratello, poi - proprio in questi giorni - il figlio, e a ruota pure la fidanzata del figlio: droga, giri di denaro sporco, guida in stato di ebbrezza, e Michael lì, da solo, a difendere l’onore del clan da tutto questo fango montante. Auguri.
Ma figuriamoci poi se queste pecore funeste precipitano in famiglie tradizionalmente disfunzionali come quelle degli scrittori. Apriti cielo. Non c’è ovile che non esploderebbe. In questo caso, per parodiare la celebre osservazione di Thomas S. Eliot, il mondo non finisce con una deflagrazione, e nemmeno con un mormorio, ma con un belato. Bene. Ora vediamo di chi.
Di ieri, sul Corriere, è lo sfogo di Mauro Corona, autore di Storia di Neve: «Mai avuto carezze. Adesso avrei voglia di andare da mia madre che ha 85 anni e la mente confusa e dirle: “Mamma, dammi un abbraccio, se no ti spacco la testa con la roncola!”. Me lo ricordo ancora il giorno in cui lei se ne andò, forse inseguendo l’illusione di una nuova storia d’amore». E abbandonando Mauro, però, in un contesto difficile: per via della grappa a colazione invece del caffelatte, a nove anni era già alcolista; dovette imparare a cacciare di frodo e a fare il taglialegna; a gestire il padre abbandonato e violento. Soltanto con enorme disciplina riuscì a non perdersi - pecora bianca tra le nere - e a diventare lo scrittore di best seller «d’altura» che conosciamo, con centinaia di migliaia di copie vendute. «Poi mia madre tornò e mio padre la riprese con sé. Vado a trovarla ogni tanto, ma non riesco a perdonarle quei sette anni di vuoto».
Altra musica - «classica», «wagneriana» - per la famiglia di Thomas Mann, dove si sono date appuntamento un gran numero di pecore nere, attorno a un padre-padrone capace di stampare un Edipo addosso a chiunque. È il 21 maggio 1949. Un telegramma arriva all’autore dei Buddenbrook in quel momento a Stoccolma per un giro di conferenze: suo figlio Klaus si trova in condizioni disperate all’ospedale di Cannes, ha tentato il suicidio con i sonniferi. Morirà di lì a poco. Reazione dell’intransigente (con gli altri) Thomas Mann, annotata dal medesimo nel suo diario: «Da parte di Klaus un gesto offensivo, brutto, crudele, irriguardoso e irresponsabile». Non se la sentì, dunque, di interrompere il viaggio di lavoro per recarsi al funerale. Anche Katia, madre di Klaus, e la sorella Erika non ci andarono. Solo il fratello Michael rinunciò a una crociera sul Mediterraneo per suonare un largo per viola sulla tomba del suicida che - tra tutti i figlioli Mann - fu il più sfortunato e il più dotato per la letteratura (basta leggere il suo La svolta). Omosessuale molto promiscuo, morfinomane, pieno di debiti nonostante la cospicua prebenda che gli veniva passata, Klaus non era il primo suicida in famiglia: anche le sorelle di suo padre, Carla e Julia, si uccisero, dopo vicende sentimentali ed economiche che meriterebbero diversi romanzi, di cui uno già scritto (I Buddenbrook, appunto: quando si dice che gli scrittori si nutrono di tutto...). E alla fine anche il fratello di Klaus, Michael, alcolizzato e devastato dalla lettura tardiva dei diari paterni che contenevano pagine non proprio benevole su di lui, commise suicidio con barbiturici la notte di san Silvestro del 1976-77.
I fratelli Mann furono scrittori, studiosi o musicisti di grande pregio, ma portarono in sé anche tutte le insidie dell’esser nati in una famiglia di tale calibro: le loro vicende sono ripercorse da Marianne Krull in un libro imperdibile per tutti gli appassionati, Nella rete dei maghi. Una storia della famiglia Mann (Bollati Boringhieri). Una volta, chiesero a Golo Mann, terzo figlio di Thomas, saggista acclamato, chi avrebbe voluto essere se non fosse stato lui. La risposta, a ottantant’anni suonati (molti dei quali passati a cercare di non uccidersi), fu davvero disarmante e triste: «Qualcuno di più felice di me». È il motto di tutte le pecore nere.
A volte, però, le pecore nere della famiglia sono quelle che la tengono, letteralmente, in piedi. Stanislaus Joyce, da sempre ritenuto dal padre e dal fratello maggiore James un «tipo prosaico e banale» non meritevole di considerazione, fu l’unico che lavorasse seriamente, soprattutto durante l’esilio a Trieste al seguito della famiglia del fratello. A quel tempo James era troppo impegnato con Dubliners e Ritratto dell’artista da giovane e campava di lezioni d’inglese, ma più che altro si ubriacava e faceva regali alla moglie, di cui era innamoratissimo. Chiedeva prestiti a Stanislaus «per far mangiare la prole», ma subito dopo, chissà come, la consorte Nora compariva con un foulard inedito o un nuovo anellino al dito. Le conseguenze dell’irresponsabilità di James andarono avanti parecchio: incontrando lo zio in una piazza di Trieste, i figli piccoli del futuro autore di Ulysses lo apostrofavano tirandogli la giacca: «Ricordati che per colpa tua oggi non abbiamo mangiato!». E il povero Stanislaus metteva ancora mano al portafogli. Ogni tanto si sbronzava anche lui, ma non avendo come alibi il genio del fratello, mezza città, più che comprenderlo, lo criticava.
A volte, poi, è il genio stesso a essere la pecora nera della famiglia: racconta Thomas Bernhard di come Johanna Schopenhauer, sorella di Arthur, fosse autrice di romanzi kitsch di enorme successo che la fecero diventare milionaria (in una famiglia già ricca di suo) e molto richiesta nei più prestigiosi salotti dell’epoca. Tutto questo, aggiunge Bernhard in una memorabile e misogina pagina delle sue conversazioni con Krista Fleischmann, «mentre il fratello Arthur, che oltre al suo cane aveva altri due ascoltatori all’università, per quarant’anni ha avuto una tiratura di 120 copie del Mondo come volontà e rappresentazione».
Andò peggio al fratello di Jean Jacques Rousseau, maggiore di sette anni del filosofo, che gli dedica un po’ (poco) di spazio nelle Confessioni. Il padre lo spedì in riformatorio nel 1718, accusandolo di una generica «malvagità». Cinque anni più tardi il ragazzo fuggì e fece perdere le proprie tracce per sempre. È solo uno dei molti parenti di grandi nomi che si sono smarriti nella storia, conservandosi nell’opera dei «sopravvissuti». A volte, per loro, non c’è nemmeno un ricordo postumo: è il caso di Hans Jacob Ibsen, abile liutaio, grande lettore, ma, ahilui, figlio di Henrik Ibsen. I due si videro una sola volta, nel 1892, quando il quaranteseienne Hans Jacob, ridotto in miseria, bussò alla porta del padre per chiedergli aiuto. Papà gli mise in mano cinque corone («È quanto diedi a tua madre. Dovrebbe bastare anche per te») e poi gli sbattè la porta in faccia.
Di Ada Byron conserviamo le lettere, sue e del più celebre padre George Gordon Byron. Da esse sappiamo che nel sistema nervoso di Ada c’era «una totale mancanza di equilibrio e stabilità, un continuo passaggio da un’euforia trascendente a una disperazione assoluta». Morì a 36 anni, dopo aver ispirato con la sua vita parecchio travagliata alcune poesie del padre che la vedeva «figlia dell’amore, anche se nata nel rancore e nell’ansia nutrita». Epigrafe perfetta sulla tomba di molte pecore nere.
Quasi tutti i figli di Ernest Hemingway si ritrovano nell’opera del padre che però dipingeva la realtà più bella di quanto fosse: narrava di quando li portava a caccia grossa in Africa, a pesca al largo di Cuba, ma non di quando, a causa dell’atmosfera che si respirava in casa e tra i genitori, si mettevano nei pasticci. C’è chi si è fatto arrestare (più volte) per droga e chi perché guidava ubriaco.

Il figlio Gregory, pecora molto nera per sua stessa ammissione, una volta disse: «Va benissimo subire l’influenza di una forte personalità come mio padre finché rimane sana, ma quando la sua anima diventa putrida, come si fa a dirgli che puzza?». In questo noi lettori siamo fortunati: ci prendiamo il meglio senza pagarlo.

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