Non mi è mai capitato d’essere sottoposto a un esame della retina prima di cominciare un’intervista. Sarà per evitare che prenda lucciole per lanterne. Provvede il dottor Marco Morales, responsabile commerciale di Centervue, che dal settembre 2009 ha venduto una cinquantina di Maia e firmato accordi di distribuzione con 27 Paesi. L’acronimo sta per Macular integrity assessment. È una macchina - prezzo di mercato intorno ai 25.000 euro - che prima non esisteva: l’ha inventata una squadra formata da una decina di neolaureati. In quattro minuti consente di scoprire se la macula lutea, area tondeggiante della retina dove la sensibilità visiva è massima, risulta sana oppure no. Appoggio il mento, sbarro l’occhio, fisso un crocino rosso e schiaccio un pulsante ogni volta che vedo un puntino grigio nell’oscurità. Risultato del test: nessun indizio di maculopatia, degenerazione che in età senile diventa la prima causa di cecità.
Starete già pensando che lo scopo di Centervue sia quello di vendere tante Maia a ospedali, ottici e optometristi di tutto il mondo. Errore. Lo scopo di Centervue è quello di vendere Centervue. Magari fra qualche anno e al miglior offerente, considerato che si tratta di una gallina dalle uova d’oro. Così l’ha concepita Ruggero Frezza, il gallo di M31, cioè del pollaio in cui Centervue è nata e sta crescendo: fondatore, presidente e amministratore delegato. Fino al 2008 era docente di controlli automatici e visione computazionale nella facoltà di ingegneria dell’Università di Padova. Anche Galileo Galilei, che insegnava qui, sul finire del Cinquecento s’era attrezzato un’officina nella quale con l’aiuto dell’artigiano Marcantonio Mazzoleni eseguiva esperimenti e fabbricava compassi, bussole e squadre per arrotondare lo stipendio. Il professor Frezza ha fatto l’esatto contrario: dopo 20 anni di onorata carriera ha mollato la cattedra, rinunciando alle annesse prebende, ed è diventato imprenditore, senza reti di salvataggio. Lo ha fatto per amore dei suoi studenti, perché si potessero a loro volta trasformare in imprenditori.
M31 è un’azienda di Padova che sforna aziende. Un’impresa al quadrato, forse al cubo. Per questo prende il nome dal numero della galassia di Andromeda nel Catalogo di Messier. «Tutte le galassie cominciano la loro vita formando stelle», come dice Chris Martin, coordinatore del Galaxy evolution explorer al California institute of technology di Pasadena, il politecnico più famoso degli Stati Uniti. È ciò che Frezza ha cominciato a fare: formare nuove stelle nella galassia imprenditoriale italiana. Centervue, Adaptica, Si14, Zond, Eye knowledge network brillano già di luce propria e impiegano una sessantina di geni brillanti, età media sui 30 anni, che guadagnano dai 1.500 ai 2.500 euro netti al mese. M31 conta di sfornare almeno tre nuove aziende all’anno, ognuna delle quali con un suo presidente, un suo consiglio d’amministrazione, una sua autonomia.
Diciamo che il professor Frezza, 48 anni, originario di Pordenone, figlio di un dirigente della Zanussi «e vergogna di mia madre, insegnante di lettere e latino», ha applicato a M31 la tabellina del tre usata in famiglia: con la moglie Elisabetta, avvocato civilista, fa un figlio ogni tre anni. Per il momento ne hanno già cinque, 12 anni il più grande. La signora ha lasciato senza rimpianti la professione forense per dedicarsi alla prole: «Dipendesse da lei, andremmo avanti finché natura concede. Gliene sono grato. È il mio miglior investimento: torno a casa e non sono mai solo».
Laureato con 110 e lode in ingegneria elettrotecnica nello stesso ateneo dove poi avrebbe insegnato, Frezza è rimasto per quasi sei anni all’Università di Davis in California e lì ha conseguito il dottorato di ricerca in matematica applicata con una tesi sui modelli stocastici non causali, che non so che cosa voglia dire però suona bene. Poi ha vissuto tra Svezia, Francia, Olanda e Austria, fermandosi infine a Padova, «perché qui vengo a lavorare a piedi e i commercianti di piazza della Frutta chiamano per nome i miei figli: credo sia questa la qualità della vita».
Quando lei si laureò a Padova, che cosa sperava di diventare?
«Un grande scienziato che avrebbe cambiato il mondo. Mi ero innamorato della scienza dei sistemi. Colpa del professor Giovanni Marchesini. Partecipare a una sua lezione era come assistere a un thriller a puntate».
Che cos’è la scienza dei sistemi?
«È la scienza che permette di capire tutto: da come si costruisce un autofocus al perché le formiche sono organizzate in un certo modo. Un mio allievo la usa per controllare la popolazione dei salmoni nei fiumi dell’Oregon e della California e per regolare la pesca nell’Oceano Pacifico. Sta alla base dei 20 prodotti inediti e dei 7 brevetti concepiti in questo incubatoio».
Che genere di prodotti e brevetti?
«Specchi deformabili che consentono di vedere attraverso una cellula o correggono le aberrazioni provocate dall’atmosfera, la quale s’interpone fra i telescopi e i corpi celesti. Elettronica industriale avanzata: dalla videosorveglianza ai cruscotti digitali».
In che modo nasce M31?
«Da un gruppo di soci che decidono di investire 350.000 euro. Io ne ho messi 90.000, quasi tutti i risparmi di famiglia, ma non lo scriva, mia moglie non lo sa. Il primo anno avevamo 17 ragazzi già assunti, pronti a partire con le loro aziende. Ma 350.000 euro non bastano a far nascere nuove imprese, perciò sono andato in cerca di capitali. Ho bussato alle porte degli industriali locali. Tutte chiuse. Nessuno che credesse al progetto: troppo strano. Finché non ho trovato il conte Giannino Marzotto».
Figlio del leggendario Gaetano, il cui motto era «Prevedere, ardire, vincere».
«Un amante del rischio e della velocità, come dimostrano le sue partecipazioni alla Mille miglia. Abita in un antico mulino a Trissino, in provincia di Vicenza, e a 82 anni si diverte a ricevere a pranzo tutti i giorni gente interessante, ad ascoltare, a fare domande. S’è appassionato a M31 e ha sborsato sulla parola 1,8 milioni di euro. Ha investito su un’idea. Oggi la nostra piccola galassia di imprese è valutata 9,5 milioni di euro».
Ma come si può lasciare una cattedra universitaria, una delle posizioni sociali in assoluto più ambite?
«È semplice: ho scritto una lettera di dimissioni al rettore».
Non poteva mantenere l’incarico e fare anche l’imprenditore?
«In Italia un escamotage si trova sempre. Ma quando fai una scelta, devi farla bene».
Guadagna di più come imprenditore?
«Stando al modello Unico ho guadagnato meno che nell’ultimo anno di docenza».
Se le andasse male, potrebbe tornare in università?
«No. M31 non deve andar male, se non altro per dar torto a parenti ed amici che mi hanno detto: “Sei pazzo”. Per un paio di notti non ci ho dormito, ovvio. Ma non mi pento».
Chi gliel’ha fatto fare?
«L’unica ambizione dei miei studenti era trovarsi un posto fisso vicino a casa. Non capivo perché ragazzi di 24 anni, con un cervello stellare, non fossero disposti a diventare imprenditori per sviluppare un loro progetto. L’Agenzia spaziale italiana mise a disposizione dell’Università di Padova 40.000 euro. Proposi ai miei allievi del quinto anno: con 40.000 euro siete capaci di creare un’auto che non abbia bisogno del conducente? In sei mesi comprarono una Range Rover usata, la robotizzarono e alla fine la guidavano con un joystick o la facevano andare da sola. Capisce? Sono questi studenti a finire prigionieri di una gerontocrazia che non dà spazio alla loro creatività».
Triste.
«Una volta credevo che il mestiere più bello del mondo fosse quello del romanziere. Ora so che è quello del professore. Non volevo lasciare la cattedra. Ma non potevo consentire che un simile capitale umano andasse disperso. Mi dava troppa sofferenza. Ieri ho fatto la fila per un’ora e mezzo negli uffici dell’Enel, alla fine me ne sono dovuto andare perché avevo un altro impegno. Ebbene, qui abbiamo due ricercatori di Verona, Pier Mattia Avesani e Alberto Silletti, che hanno ideato un sistema basato su un algoritmo in grado di prevedere la durata di una coda e di inviare un Sms all’interessato dieci minuti prima che arrivi il suo turno».
A livello mondiale chi vi conosce?
«Le do solo un dato: Si14, che prende il nome dal simbolo e dal numero atomico del silicio, è “embedded and communication alliance” partner di Intel, il colosso planetario dei microprocessori».
Traduca.
«Non posso, devo dirlo così, per contratto. È il riconoscimento dell’eccellenza. Significa far parte di un consesso d’imprese la cui qualità è garantita da Intel. E infatti Si14 sarà la prima azienda che venderemo nel 2011».
Che cosa cerca in un collaboratore?
«Un mix di intelligenza emotiva e di intelligenza quantitativa. Cerco persone che non aspettino di sentirsi dire cosa devono fare».
E qual è il difetto peggiore che le impedirebbe di assumerlo?
«L’assoluta reiezione al rischio. Purtroppo in Italia più si sale col titolo di studio e meno si vuol fare l’imprenditore. I modelli di ruolo sono quelli legati alle professioni che prevedono l’iscrizione a un albo: notaio, avvocato, medico, ingegnere. Ma quanto investe lo Stato sullo studente che versa 2.000 euro di tasse universitarie? Almeno cinque volte tanto. Poi, appena gli ha consegnato la laurea, lascia che vada ad aprirsi la sua impresa in California, cioè regala l’investimento a un altro Paese».
Per forza, con i venture capital in California nel 2009 alle società innovative sono arrivati 20 miliardi di dollari. In Italia solo 50 milioni di euro.
«Mi sono divertito a fare qualche raffronto fra il Massachusetts institute of technology di Boston e l’Università di Padova. Il Mit ha 10.000 studenti e 900 docenti, la facoltà di ingegneria patavina ha 11.000 studenti e 450 docenti. Al Mit gli studenti che fanno il dottorato sono 6.000, da noi 350. Da loro ci sono 9.000 dipendenti non docenti a supporto della ricerca, qui appena 150. Eppure il Veneto ha un Pil pro capite di 28.000 euro, superiore del 18 per cento alla media nazionale».
Allora che cosa manca al Nordest?
«Il coraggio di destinare una parte del suo immenso capitale alla ricerca. Preferisce le imprese familiari che nascono da opportunità casuali anziché da progetti. Ho conosciuto alcuni padovani che si sono arricchiti con gli appendini. Però nessuno di loro da piccolo avrebbe voluto fabbricare grucce per abiti. Nel Veneto nessuno sa che l’evento artificiale più breve nella storia dell’umanità è stato creato da un professore che ha il laboratorio a 100 metri da questa sede. È un impulso laser che dura qualche decina di attosecondi. Per capirci, l’attosecondo è pari a 0,000000000000000001 secondi. Vuol dire che la luce, la quale viaggia a 300.000 chilometri al secondo, in una manciata di attosecondi riesce a percorrere solo alcune decine di milionesimi di millimetro. Pensi quali applicazioni potrebbe avere un evento più breve del tempo che l’elettrone impiega a orbitare attorno al nucleo dell’idrogeno».
Ha provato a parlare di queste tematiche con qualche politico?
«Sì. Ti dicono: “Molto interessante, mi mandi una mail”. Gliela mando. Silenzio. Se Stato e Regioni investissero di più sull’università, il sistema produttivo italiano spiccherebbe il volo. Lei sa dirmi come mai le carni del branzino sono bianchissime?».
Mi coglie impreparato.
«Perché gli allevamenti ittici puliscono le vasche con acqua ossigenata e formaldeide. Dallo studio delle porfirine, composti chimici presenti in natura che emettono ossigeno quando vengono illuminati, il professor Giulio Iori, un biologo dell’Università di Padova, è arrivato all’applicazione di queste molecole nella depurazione dell’acqua, visto che l’ossigeno uccide i germi. Un brevetto di un valore commerciale pazzesco: il 50 per cento del pesce che mangiamo proviene dall’acquacoltura. E infatti se l’è comprato una società di Salt Lake City, nello Utah. Iori ci ha provato, poveretto, a pagarsi per anni le tasse di registrazione del brevetto. Ma non poteva rischiare il divorzio dalla moglie...».
Alla fine non si capisce come abbia fatto il Nordest a diventare la locomotiva d’Italia.
«C’è riuscito con quello che gli americani chiamano sweat equity, l’investimento in sudore. Se vado da un imprenditore e gli propongo di fondare insieme una società, mi risponde: “D’accordo, questi sono 10.000 euro di capitale e il resto lo mettiamo in lavoro”. Allora devo spiegargli che Centervue da sola è un investimento da 2 milioni di euro: mi prende per matto. Non capisce che la capitalizzazione avverrà al momento di vendere l’azienda. Il veneto guarda a domani, mai a dopodomani».
È prudente. Una dote.
«È pavido. Non vuole mettere a rischio i suoi soldi, teme i fallimenti. Invece è dai fallimenti che s’impara, non dai successi. Quando un ricercatore si rende conto che una certa cosa non è vera, in quel preciso istante ricava molte più informazioni di quante ne avrebbe ottenuto scoprendo che è vera.
(485. Continua)
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