di Loris Cereda
Il 22 marzo alle 7 del mattino e con due elicotteri che sovrastavano la mia casa sono stato arrestato e portato nel carcere di Bollate (Milano, ndr). Ora che da due mesi vivo l’esperienza di detenuto sento il dovere di raccontare qualcosa in più circa la mia situazione sia a chi mi conosce sia a chi dalla mia esperienza può trarre elementi utili per valutare, sulla base di un fatto reale, ciò che magari nel dibattito sulla giustizia viene percepito in modo astratto.
Premetto che sto vivendo la mia carcerazione con grande serenità; ciò deriva dal fatto di avere la coscienza a posto e dalla convinzione che quando si combatte una battaglia su principi che si ritengono alla base della civiltà (giuridica, sociale o politica) bisogna essere sempre pronti a pagarne le conseguenze con coraggio e senza tentennamenti.
Il mio arresto è stato disposto dopo che per nove mesi sono stato pedinato e intercettato, da questa lunga attività investigativa sono emerse due contestazioni: mi si accusa di aver percepito (versata sul conto corrente intestato a me e a mia moglie) una «tangente» di 3.250 euro e di aver ricevuto in prestito auto di lusso al fine di favorire un imprenditore nell’ottenimento di un subappalto e un altro nella realizzazione di un’iniziativa immobiliare.
Voglio dire subito che ritengo di poter dimostrare come entrambe le «utilità percepite» non abbiano nulla a che vedere con la mia attività di sindaco e, soprattutto, che tutte le scelte da me fatte siano state sempre e soltanto fatte nell’interesse della città che amministravo. Ma ci sarà il tempo e la sede per chiarirlo.
Il mio arresto ha provocato l’eliminazione fisica della mia amministrazione che nel 2012 sarebbe stata sottoposta al giudizio degli elettori. Da quando faccio politica ho sempre sostenuto sui giornali e nei dibattiti televisivi la pericolosità di un sistema investigativo basato sull’onnipresenza delle intercettazioni telefoniche e la pericolosità di un rapporto tra il potere giudiziario e il potere politico governato dall’ossessione antagonista che una parte della magistratura manifesta verso la politica (in particolare verso il mio partito - Pdl, ndr).
Ho sempre sostenuto queste tesi apertamente e a testa alta anche quando mi si faceva notare che l’esporsi su questi temi comportava rischi consistenti: io ritengo che su questi principi si stia combattendo oggi una battaglia che va ben oltre le singole sofferenze che può pagare la mia persona, qui è in gioco il futuro del nostro Paese e la possibilità o meno che i miei figli possano vivere in un Paese libero dove la democrazia non sia assoggettata a poteri che nulla hanno a che vedere con la libera espressione della volontà popolare.
Dopo due mesi di carcerazione, nonostante la Costituzione (e non solo la mia coscienza) sancisca la mia innocenza, continuo a essere detenuto sotto forma di «custodia cautelare». Le motivazioni sostenute dal Pubblico ministero e sottoscritte dal Giudice per le indagini preliminari (persone che oggi sono parte della stessa organizzazione giuridica senza che la separazione delle carriere tanto attesa ne metta per lo meno in confronto dialettico le convinzioni) sono fondamentalmente tre. Da un lato si contesta che non prendo le distanze dai miei comportamenti «delittuosi» dall’altro che potrei reiterare il reato e infine che potrei inquinare le prove. Ora, dopo che per nove mesi sono stato intercettato e pedinato, dopo che il Pubblico ministero mi ha interrogato per sei ore e dopo che per due mesi sono stato tenuto nell’impossibilità di difendermi nel mondo reale mentre i miei amici e soprattutto i miei nemici (o ex-amici) venivano passati al setaccio dagli investigatori, mi viene da chiedermi se per «inquinare le prove» si voglia forse intendere quello che dovrebbe essere il mio diritto di difendere la mia persona sia dal punto di vista giuridico che da quello politico e, ultimo ma non per importanza, umano.
Per quanto riguarda la distanza dai miei comportamenti è evidente che ritenendomi innocente non capisco da cosa dovrei prendere le distanze. Mi viene da chiedermi se «prendere le distanze dai miei comportamenti» voglia forse dire confessare reati che non ritengo di aver commesso. Ma allora vorrebbe dire che la carcerazione che mi viene imposta non è altro che un modo per «farmi confessare» con buona pace di quello che dovrebbe essere un principio cardine del nostro ordinamento per cui l’innocenza deve essere presunta fino alla dimostrazione in giudizio del contrario.
E infine, dato che non sono più sindaco, non riesco proprio a capire come potrei reiterare il reato.
Mi viene da chiedermi se «reiterare il reato» non voglia forse dire continuare a comportarmi con i principi che hanno sempre governato la mia vita dove il principio di dire ciò che pensavo e di dirlo sempre a testa alta non è mai venuto meno: se così fosse mi dovrò rassegnare ad accettare l’ergastolo, perché il reato di ribellarmi a ciò che ritengo ingiusto lo intendo reiterare per tutta la vita che avrò la fortuna di vivere da uomo libero.*ex sindaco di Buccinasco (Mi)
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