«L’Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti burletta come quelli del 1860-’61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria». Queste le ultime righe del desolato poscritto che Montanelli ha posto all’ultimo volume della sua-nostra-storia; l’Italia dell’Ulivo. Non più desolate, queste ultime righe, delle prime: «Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell’Italia contemporanea. Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo. Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere».
Come tutti i lettori sanno la Storia d’Italia non ha avuto un seguito a due mani. Mi sarebbe sembrato quasi blasfemo che la straordinaria creatura montanelliana proseguisse il suo lungo cammino senza la firma del creatore. Ma un motivo meno contingente mi ha indotto a desistere da ogni tentazione di sequel. È che condividevo il pessimismo di Indro non sulla sopravvivenza dell’Italia - che è uno straordinario galleggiante spesso e volentieri privo di timone - ma sulla possibilità che alcuni difetti del carattere nazionale possano essere modificati. Eravamo d’accordo sul semplice concetto che l’Italia sia incurabile ma anche inaffondabile.
Il Montanelli dell’estrema vecchiaia, fiaccato da alcune gravi delusioni e non più rincuorato da illusioni, si sentiva - per usare un termine abusato ma calzante - straniero in Patria. Era stato uomo di slanci patriottici (sempre venati d’autoironia): gli slanci del giovane ufficiale in Etiopia, gli slanci del sostenitore della monarchia nel referendum del 2 giugno 1946, gli slanci dell’anticomunista che in una lettera all’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce affacciava l’idea di una sorta di golpe bianco per porre rimedio alle irresolutezze della classe politica.
Il giuoco del «cosa direbbe oggi Indro» assistendo alle celebrazioni dei centocinquant’anni dall’Unità non mi piace molto: perché consente di far parlare abusivamente chi parlare non può più. Eppure mi ci azzardo io pure, temerariamente, per averlo conosciuto bene.
Credo che dapprincipio avrebbe storto il naso per una certa polverosità retorica che le celebrazioni sempre hanno, ma poi avrebbe accettato, con mugugni di simulata irritazione, di partecipare a qualche «evento». Lo si sarebbe visto in prima fila sia nel contrastare l’ondata del revisionismo neo borbonico e papista, lo si sarebbe visto egualmente in prima fila nell’opporsi a certo antiunitarismo leghista. Fosse ancora con noi, sono sicuro - scusatemi la presunzione - che avrebbe ritrovato nella difesa del Risorgimento un po’ d’interesse per l’Italia di ieri (...)
(...) e di oggi. Le battaglie gli davano vigore. Nel referendum del 2 giugno avevamo votato in maniera opposta, lui per la monarchia, io per la Repubblica. Quando ne discorrevamo, spiegava che lui si rendeva perfettamente conto di quanto ignominiose fossero state certe firme di Vittorio Emanuele III sotto i provvedimenti di Mussolini, e quanto ignobile fosse stata la fuga di Pescara. Ma supponeva che in un Paese disunito e rissoso un Re costituzionale potesse essere la migliore garanza di convivenza civile e di neutralizzazione degli estremismi. Quell’8 settembre io non lo perdonavo invece alla monarchia. A Indro il «pericolo rosso» sembrava molto serio (anche a me del resto).
Mi confessava d’essersi sbagliato. Non aveva immaginato il provvidenziale crescere e imporsi di quell’Italia moderata che ha avuto il suo simbolo nella Dc, e che ha spazzato via i rimpianti per i Savoia.
Per rimanere nell’ambito del «cosa farebbe e direbbe Indro» devo aggiungere che gli toccherebbe un ruolo paradossale. Quello di difendere il Risorgimento, e i padri della Patria, proprio lui che è stato il primo e il più brillante revisionista d’Italia. Per Montanelli la storia era un seguito di personaggi piuttosto che un’indagine sui grandi moti ideologici e sociali. E per un collezionista di figure e figuri quegli anni erano una manna. Un Vittorio Emanuele II, un Garibaldi, un Cavour, un Mazzini parevano fatti apposta per offrirsi agli strali di umoristi e caricaturisti. Soprattutto Garibaldi con i suoi vezzi sudamericani e le sue manie anticlericali. M’è capitato qualche volta di rimproverare amichevolmente Indro per la sua disinvoltura - in prima persona o con Marco Nozza - nel trattare l’eroe dei due mondi. Personalmente ho per Garibaldi una grande ammirazione. Pur con i suoi eccessi e con le sue mattane rimane il personaggio più pulito e coraggioso che possiamo opporre alla nomea - non tutta infondata - che ci vuole intriganti, voltagabbana, vili.
Garibaldi, la testa calda. E Cavour il grande tessitore che seppe imporsi a Vittorio Emanuele II, rozzo fin che si vuole ma leale nel difendere lo Statuto. Eppure capace di piccinerie miserabili sia nei confronti del genio Cavour, sia nei confronti di Garibaldi. Dopo l’incontro di Teano, nel quale il Meridione era stato simbolicamente consegnato al re, Garibaldi chiese l’onore di partecipare con i suoi uomini all’attacco contro le ultime posizioni borboniche. «Il Re rifiutò asciuttamente adducendo che i volontari dovevano essere troppo stanchi e bisognosi di riposo». Questo nel tripudio dei generaloni sabaudi.
Sì, il Risorgimento fu un singolare crogiuolo di materia informe e non limpida dal quale uscì un miracolo, l’Unità. Montanelli, ribadisco, lo ha già a suo tempo dissacrato impietosamente. Cito la sua versione d’un episodio avvenuto durante la navigazione dei Mille verso la Sicilia. «Alla fine (Garibaldi) decise una sosta a Talamone in Maremma, per prelevarvi un po’ di armi. A terra lasciò una sessantina di uomini al comando di un certo Zambianchi con l’ordine di penetrare negli Stati Pontifici e accendervi la rivolta. Zambianchi, ch’era un mariuolo, si limitò a saccheggiare alcuni pollai, poi sbandò il suo manipolo». La farsa, non l’epopea. Ma sono certo - e dagli! - che oggi, nel colmo di un’offensiva anti risorgimentale che il clangore delle trombe celebrative non riesce ad occultare, Montanelli si alzerebbe, nella sua altezza e magrezza un po’ donchisciottesca (ma adattissima al «beau geste») per difendere il Risorgimento e i padri della patria.
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