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«In Libano è necessaria una forza che sappia difendersi e attaccare»

Gerusalemme chiede truppe anche al confine di Siria e Libano

Fausto Biloslavo

La missione internazionale in Libano dev’essere «combat», nonostante i pruriti dei pacifisti nostrani, la tragedia di Cana potrebbe non essere un errore ed i bombardamenti israeliani dureranno ancora une decina di giorni. Non ha peli sulla lingua il generale di squadra aerea Mario Arpino, friulano tutto d’un pezzo, veterano della prima guerra del Golfo, fino al 2001 capo di stato maggiore della Difesa dopo una carriera impeccabile.
Lei ha scritto che in Libano ci attende una missione lunga e difficile. Cosa intendeva dire?
«Lunga perché a Naqoura (la base delle Nazioni Unite nel Sud del Libano, ndr) ho portato il primo elicottero italiano della missione Onu nel 1978 ed i caschi blu sono ancora sul posto. Difficile perché da quelle parti la pace non c’è mai stata e quindi parlare di missione peacekeeping è ridicolo. Basta pensare che se la forza di pace dovesse far rispettare la precedente risoluzione dell’Onu, la 1559, che già prevede il disarmo di Hezbollah, bisognerebbe far arrivare un esercito con carri armati e cannoni».
Quanti uomini ci vorrebbero per sperare in un successo?
«Dipende a che punto della crisi si interviene. Nel caso si intervenga con una semplice tregua si deve partire con una missione “pesante” di 30-40mila uomini, con regole d’ingaggio molto severe. Invece se si rimanda ad un accordo di pace, allora i tempi si dilatano ed il contingente può essere anche più limitato».
L’Italia potrebbe guidare una missione del genere?
«La capacità di guidarla ce l’abbiamo, grazie alle esperienze di questi ultimi anni. La struttura sappiamo metterla in piedi, ma poi sono le forze che mancano. Talvolta bisogna evitare di gonfiarsi il petto, proponendosi come candidati, se poi rimane solo un’ambizione».
Lei non vuole che si ripetano i disastri dei caschi blu a Mogadiscio e Srebrenica. Quindi l’Onu deve concedere il mandato alla Nato?
«Ogni volta che l’Onu ha comandato in proprio sono successi disastri. In questo momento è la Nato l’unica alternativa se si vuole intervenire subito con una forza “combat” capace di realizzare una missione di peace enforcing».
Pensa che i pacifisti nostrani sopporterebbero un’operazione «combat»?
«Disarmare i quattro guerriglieri dell’Uck, in Kosovo, era una cosa, ma farlo con Hezbollah è completamente diverso. In Libano è necessaria una forza militare che abbia la capacità non solo di difendersi, ma anche di reagire. Siamo di fronte al solito problema di non voler chiamare le cose con i loro nomi. Questo sistema crea confusione, impone regole d’ingaggio sbagliate e porta ad incriminare i comandanti come nel caso della battaglia dei ponti a Nassirya. Si tratta della solita ipocrisia italiana, che abusa della parola pace per nascondere la realtà. Se poi dobbiamo fare digerire la missione a chi si ammanta delle bandiere iridate allora chiamiamola di “peace enforcing”».
Quanto dovrebbe durare l’impegno internazionale in Libano?
«A Naqoura ci siamo da 40 anni, in Bosnia da 10 ed in Kosovo da sette. Faccia pure lei i conti».
Cosa pensa del bombardamento israeliano di Cana, che ha provocato la tragica morte di 37 bambini?
«Non credo molto agli errori. Mi torna in mente il bunker della polizia a Bagdad colpito durante la prima guerra del Golfo, (con le telecamere che mostravano lo scempio dei civili iracheni che vi avevano trovato rifugio, compresi dei bambini, ndr) oppure l’ambasciata cinese centrata a Belgrado. La bomba sa dove deve andare e non si sbaglia quando l’intelligence fornisce informazioni specifiche. In quell’edificio erano stati segnalati due capi di Hezbollah, che poi devono aver preferito attorniarsi di parenti o rifugiati».
Fino a quando continueranno i bombardamenti?
«All’inizio avevo stimato quattro settimane.

Penso che fra una decina di giorni si parlerà meno della minaccia Hezbollah».

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