Cultura e Spettacoli

Un liberale perfetto fra etica e mercato

Un liberale perfetto fra etica e mercato

Nella cultura italiana Luigi Einaudi sembra più un’icona che una fonte d’ispirazione, un quadro appeso in salotto più che una presenza reale. È anche emblematico fatto che istituzioni culturali su posizioni assai diverse ne abbiano adottato il nome. Eppure il suo ruolo nel nostro ’900 è stato fondamentale. È vero che nel quadro odierno, chiamato a immaginare una fuoriuscita dalla modernità statale, Einaudi difficilmente potrebbe essere tra gli studiosi maggiormente amati negli ambienti del liberalismo classico, dove all’autore delle Lezioni di politica sociale si preferisce Hayek, Rothbard, Mises o, per restare in Italia, un liberista intransigente quale fu Bruno Leoni.
Nell’economista diventato Presidente della Repubblica il liberale del terzo millennio trova una deludente tendenza al compromesso: basti pensare alle pagine in cui è difesa l’idea di garantire eguali opportunità a tutti (senza avvertire che il punto di partenza dei figli è il punto d’arrivo dei padri), quando viene accettata la tassazione progressiva, quando si invocano interventi politici sul mercato (con il pretesto, in particolare, di combattere i monopoli). Eppure Einaudi resta vivo per una serie di motivi che possiamo scoprire anche a partire dalla celebre polemica con Benedetto Croce sul rapporto tra liberalismo e liberismo. Su quella controversia si è scritto anche troppo e certo quanti difendono la libertà di mercato hanno sposato la prospettiva einaudiana contro quella di Croce, che era arrivato perfino a sostenere che proprietà e libero scambio non fossero elementi essenziali e che la libertà «in senso filosofico» potesse essere compatibile con un’economia pianificata.
Sebbene con toni troppo pacati e quasi intimidito dal confronto con il filosofo, Einaudi reagisce. Nella diatriba egli avrebbe potuto usare argomenti anche più stringenti, ma pure sottolinea come la difesa della libertà non vada sganciata da una comprensione del carattere morale dell’economia competitiva. Contro il giustificazionismo storicista, insomma, Einaudi richiama l’attenzione sulla realtà. La sua stessa consonanza con l’Ordoliberalismus (con Wilhelm Röpke, in particolare) è interessante. È vero che tanto Einaudi quanto gli studiosi tedeschi in qualche occasione rinunciano a proteggere la proprietà privata e finiscono per accettare tesi «socialdemocratiche». Ma è ben più importante rilevare come l’economista piemontese avesse chiara le implicazioni etiche della società basata sugli scambi. In anni cruciali per la storia europea, la loro opposizione all’inflazione e al progetto di controllare i prezzi fu netta e motivata da questioni di principio.
In questo senso la forza di Einaudi è consistita nel non essere solo un economista. C’è infatti una tonalità contadina che innerva i suoi scritti e che finisce per porre al centro della scena un proprietario un po’ ottocentesco. È qui evidente una strategia decentralizzante che, per quanto non sempre solida sul piano teorico, ha comunque una sua plausibilità politica e strategica. Ricordando l’esigenza di «salvare il capitalismo dai capitalisti» (per richiamare una formula divenuta celebre), l’indicazione einaudiana poggia sull’opportunità di costituire di un blocco sociale liberale composto dai ceti intraprendenti: una costituency schierata con il risparmio e contro la spesa, con il buon senso del padre di famiglia e contro le logiche keynesiane, con quanto di saggio vi è nella tradizione.
È vero che quando Einaudi pensa di usare le istituzioni politiche per orientare la vita economica non comprende il carattere illegittimo di ogni manipolazione del mercato e della vita sociale (e l’irrazionalità che ne deriva). Egli palesa pure una carenza di realismo politico, poiché il potere ha le sue logiche e questa ipotesi dei Custodi dell’ordine sociale implicherebbe una regressione senza fine (come ci insegna il memorabile quis custodiet custodes?).

Ma non è questo l’Einaudi che ancora è vitale; e non a caso, però, è proprio l’economista che difese l’idea dell’imposta patrimoniale che gli orfani del collettivismo vogliono oggi riscoprire.

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