La libertà e l'orgoglio di essere un Italiano vero (e con la maiuscola)

Per lui Patria e famiglia erano principi autentici. Ma guai ad attribuirgli connotazioni politiche: è stato un artista di tutti, ovunque

La libertà e l'orgoglio di essere un Italiano vero (e con la maiuscola)

Per quelle che strillano e manifestano contro «Dio Patria e Famiglia, una vita di mxxda!» deve essere un giorno di festa grande. Se ne è andato uno che aveva messo per iscritto e in canzone quelle parole, nel testo che ha segnato non soltanto la storia del festival di Sanremo: «buongiorno Dio, lo sai che ci sono anch'io». Dio se ne è ricordato ieri e Toto Cutugno ha chiuso la sua storia che è anche la nostra o meglio, giusto per prendere le distanze dalla succitata ex senatrice Cirinnà Monica, di una fetta grande del Paese e pure degli stranieri che, dopo Volare di Modugno, si erano innamorati del testo e della voce di quel bell'uomo nerissimo di capelli cotonati e così tanto alto, veniva dalla Lunigiana, fetta di mezzo tra Liguria e Toscana ma aveva idee centrali. Era l'Ottantatré e non c'erano tumulti e dibattiti sul sovranismo e affinità varie, eppure l'idea e il solo pronunciare il sostantivo Patria creava fastidi e allergie tra chi nulla o poco conosceva e conosce di questa nostra terra di spaghetti e di un presidente partigiano. Cutugno si chiamava Salvatore ma fu Toto il suo nome di carriera, senza l'accento sull'ultima vocale per non confondersi con l'immenso principe De Curtis che, spesso e volentieri e artisticamente, interpretava il ruolo di un Italiano per niente affatto vero ma, per motivi di copione, fasullo e furbastro.

Cutugno è stato il tricolore portato dovunque, nei teatri e nelle piazze, il ritornello, di quella canzone sua, entrava facilmente nel cuore degli stranieri e muoveva la nostalgia dei nostri emigrati, dissero che Toto riuscisse a riempire la piazza Rossa che nemmeno ai tempi di Stalin. Una sera cantò, in privato a Kiev, per i dirigenti dell'Uefa, c'erano Platini e Ceferin e gli altri papaveri, a presentare l'evento ci pensò Volodymyr Zelensky, non ancora capo ucraino ma attore, comico ed intrattenitore. Piaceva l'immagine dell'Italia così cantata, nessuna propaganda ideologica, nessuna discesa in campo accanto a fazioni e schieramenti definiti ma la voglia di raccontare quella storia di un italiano vero, infinitamente diversa da quella poi narrata da Giorgio Gaber: «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Non era irriverente Giorgio epperò rassegnato, era vero e puro Salvatore Toto, fiero e non per fortuna o purtroppo, ma per nascita, orgoglioso di essere cittadino e figlio di un'Italia difficile, contraddittoria, comunque con un senso patriottico, aggettivo di difficilissima frequentazione in un mondo globale nel senso peggiore del termine.

Ha segnato, dunque, un'epoca non semplicemente musicale e artistica, Cutugno ha scritto la didascalia di un Paese che pochi hanno voglia di disegnare perché oggi dire e cantare: «...con più donne e sempre meno suore» provocherebbe scazzi e lazzi tra gli ipocriti di regime para intellettuale, un attacco di sessismo greve o di pensiero antireligioso in una realtà nella quale ci facciamo il segno della croce dopo un gol o entrando in chiesa o dinanzi a una salma ma per il resto è bestemmia o infedeltà libera.

Dice: Cutugno sarebbe stato il portavoce ideale di Giorgia Meloni, lui il cantastorie della destra contro i cantastorielle della parte opposta. Pensiero basso e misero, Toto ha saputo essere artista di tutti, in ogni parte del mondo, senza slogan, marce e cortei, era un bello che diceva ciao, a russi e americani, anche se quest'ultimi trovavano spazio critico nel suo testo storico: «con troppa America sui manifesti». E, ancora, parlava di mamme e di figli, dunque la famiglia, parola e concetto in disuso, un vocabolario che non ha e non può avere rapporti con i testi dei rapper, lontano non per anagrafe ma per stile e senso dell'arte canora, vicina appunto alle nostre antiche abitudini, vorrei dire buone ma presumo che questo sappia di stantio. Il principio dell'Italiano con la prima vocale maiuscola, come il timbro sul passaporto, orgoglioso di esserlo e di descriverlo, senza cadere e scadere nella propaganda di partito, senza firmare appelli e carte ideologiche ma cantando la normalità di un popolo e di una nazione che, come diceva Ugo Ojetti, «... è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria...».

Cutugno ha provato, con il semplice ma non superficiale testo di una canzone, ad andare oltre la contemporaneità, rispolverando la memoria, perché la sua richiesta è anche l'espressione genuina di un desiderio di indipendenza e non di appartenenza, dunque «lasciatemi cantare con la chitarra in mano», voglia di libertà ma non certamente una fuga, anzi nel rispetto dell'altro perché canterà «piano piano». Dicono che Adriano Celentano, indicato per l'interpretazione originale, rifiutò l'invito, forse pregno di differenti missioni e messaggi sociali.

Eppure sarebbe stato il testo giusto per il fedele ragazzo della via Gluck, storia di un italiano e di una famiglia immigrata dal Sud, dunque italiani forse ancora più veri. Quando Cutugno presentò il brano a Sanremo, in quel festival apparve Vasco con la sua vita spericolata. C'era un Italiano da scegliere.

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