Il Lince non resiste alla bomba Un alpino morto e quattro feriti

«Quanto al modus operandi, è verosimile che nell’esecuzione di azioni ostili continuino ad essere privilegiate le tecniche di guerriglia, quali le imboscate e il posizionamento di Ied (Improvised Explosive Devices) lungo le rotabili interessate dal transito di forze internazionali...».
Così, nel linguaggio ancora un po’ primo Novecento dei nostri apparati di sicurezza, era descritto qualche giorno fa in una relazione al Parlamento il prossimo incidente in cui saremmo verosimilmente incappati, noi italiani, tra le sabbie del quadrante afghano, l’occidentale, affidato al nostro contingente. È accaduto ieri, e di nuovo, nella dinamica dell’agguato, non c’è nulla. Di nuovo c’è che abbiamo un morto, un altro, il trentasettesimo, e quattro feriti gravi. Di nuovo c’è, disgraziatamente, che anche la corazza del mitico «Lince», mezzo da ricognizione e pattugliamento che tante vite ha salvato finora, non è più così sicura di fronte alla accresciuta potenza degli «ordigni esplosivi improvvisati» collocati ai margini delle strade dai talebani.
Massimo Ranzani, 37 anni, celibe. Tenente del Quinto reggimento alpini di stanza a Vipiteno. L’esplosione lo ha ucciso sul colpo. Era di Santa Maria Maddalena, nel comune di Occhiobello, in provincia di Rovigo, dove abitano il padre Mario, 62 anni, e la mamma Iole, 58. I quattro soldati che erano sul blindato insieme con il tenente Ranzani hanno ferite brutte, fratture, ma se la caveranno.
I talebani hanno rivendicato l’attacco. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha spiegato che il blindato stava effettuando un trasferimento insieme ad altri mezzi e a un’ambulanza e si trovava a 25 chilometri a nord di Shindand, nella zona ovest del paese. Una missione di assistenza alla popolazione. Il mezzo era dotato di un sistema dissuasore elettronico - ha spiegato il ministro - che impedisce l’accensione dell’ordigno a distanza. Ma evidentemente è stato azionato a mano o con una frequenza non coperta. Contrastare e prevenire gli attentati condotti con gli ordigni esplosivi improvvisati, messi insieme in modo artigianale ma micidiali è divenuta una priorità per le forze alleate in Afghanistan. Ma non è come dirlo. E abituarsi al cambio di prospettiva, ed elaborare una strategia difensiva di fronte a quello che sembra solo un cane morto (per dire) arenatosi ai margini di un tratturo polveroso, e nasconde invece una bomba azionata a distanza, è maledettamente difficile. Insomma, una volta si sparava un proiettile per colpire un obiettivo lontano che stava fermo; oggi il bersaglio si muove e l’ordigno sta lì ad aspettarlo, per scoppiare quando gli passerà vicino. Il bersaglio siamo «noi».
Il resto segue un canovaccio tristemente noto. Il ministro che dice: «Ancora una volta i nostri ragazzi pagano un tributo altissimo di sangue...», il presidente della Repubblica, Napolitano, che dopo aver appreso con «profonda commozione...» esprime i suoi «sentimenti di solidale partecipazione...».
L’unico a rivelarsi «politicamente scorretto», per così dire, è il primo ministro Silvio Berlusconi, che anche stavolta, di fronte a questo «calvario, a questo tormento», si è chiesto a voce alta «se questo sacrificio» vale la pena; cioè se avrà successo. Ma ancora una volta tutti quanti, il ministro, il presidente, il premier, il Parlamento, alla fine dicono che sì; che vale la pena, che «dobbiamo andare avanti», per citare le parole del presidente del Consiglio dei ministri.
Oltre al nostro ufficiale, il contingente Isaf ha perso ieri altri tre uomini (34 morti a febbraio, tre in più del mese scorso).

Onore anche a loro. Mentre tutti si aspettano che la guerra incrudelisca, ora che si avvicina la primavera, che le giornate si faranno più lunghe e il clima sarà meno tormentoso per i talebani e la loro guerra di guerriglia.

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