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L'inferno di Mandela diventa un film. Fiennes: "C’è ancora razzismo"

L’attore è il carceriere del leader sudafricano nel «Colore della libertà». Ma l’89enne Nelson non ha ancora visto la pellicola

L'inferno di Mandela diventa un film. Fiennes: "C’è ancora razzismo"

Roma - Una volta scampato al durissimo regime carcerario impostogli dagli afrikaner, è stato chiesto a Nelson Mandela come avesse fatto a resistere ben 27 anni dietro le sbarre. «Sono dovuto rimanere in prigione fino a quando non sono riuscito a liberare i miei carcerieri». Un artificio retorico dietro il quale c’è tutta la forza morale e intellettuale del leader dell’African National Congress, primo artefice dell’integrazione razziale nel suo Paese e premio Nobel per la pace. Ed è dedicato proprio al suo lungo internamento il nuovo film del danese Bille August Il colore della libertà, già presentato alla Berlinale, che uscirà il prossimo 30 marzo. Una coproduzione europea, costata 30 milioni di euro e alla quale ha partecipato anche il nostro Istituto Luce, che si basa sulle memorie di uno dei carcerieri del leader sudafricano. Quel James Gregory (morto nel 2003 e qui interpretato dal talentuoso Joseph Fiennes) che ha passato quasi vent’anni accanto a Mandela.
Il film, interpretato anche da Dennis Haysbert (nel ruolo del leader di colore) e Diane Kruger (la moglie di Gregory) si concentra infatti sul rapporto carcerato-carceriere, mostrando come il potere delle idee (quelle illuminate di Mandela) riesce a scalfire prima e ad abbattere poi il muro di pregiudizi del secondino bianco. Bille August (premio Oscar nel 1987 per Pelle alla conquista del mondo) e Joseph Fiennes si sono lanciati con scrupolo ed entusiasmo nell’impresa. Oltre sei mesi di sopralluoghi in Sudafrica prima di cominciare le riprese. Per il giovane attore, che ha abbandonato una fulgida carriera di teatro shakespeariano per abbracciare la «causa hollywoodiana», si è trattato anche di sottoporsi a una full immersion per imparare non solo la xhosa ma anche il forte accento dell’inglese sudafricano. «Abbiamo incontrato tante persone - ricorda il regista, a Roma in questi giorni per partecipare all’anteprima della pellicola - compresa la vedova di Gregory. Abbiamo raccolto molte testimonianze». Curiosamente manca solo quella di Mandela. «Non siamo riusciti a incontrarlo - conferma Fiennes - spero accada presto. Gli abbiamo anche mandato il dvd del film. Stiamo aspettando ansiosamente la sua opinione». Il colore della libertà è soltanto l’ultimo esempio di una crescente attenzione che il cinema europeo e americano sta dedicando al continente africano. È lo stesso Fiennes a citare i precedenti. «Basta pensare a Blood diamonds con Di Caprio, a The Constant Gardener, interpretato da mio fratello Ralph, fino al premio Oscar L’ultimo re di Scozia». «Ho fortemente voluto questo film - aggiunge l’attore britannico, scoperto per il grande schermo da Bernardo Bertolucci (in Io ballo da sola e divenuto celebre con Shakespeare in Love) - perché pellicole come questa sono operazioni utili per smascherare non soltanto i residui di razzismo ma anche le ipocrisie dei Paesi occidentali che per difendere i loro interessi economici hanno chiuso un occhio sull’apartheid».
Il film infatti - sottolinea lo stesso attore, che rivedremo presto sul grande schermo al fianco di Gwyneth Paltrow e Annette Bening in Correndo con le forbici in mano - privilegia il punto di vista del sudafricano bianco, partendo dalle memorie del carceriere. Anzi del censore, visto che Gregory era stato investito dai servizi segreti di una pesante responsabilità: la sua conoscenza del dialetto xhosa gli consentiva di riferire ai superiori tutto ciò che Mandela e i suoi compagni si dicevano, compresi i messaggi «cifrati» delle poche lettere cui avevano diritto nel rigidissimo regime carcerario. Ed è proprio attraverso questa sua attività di censore che Gregory viene in contatto con le idee e i manifesti politici dell’African national congress, facendosi sedurre dal messaggio che avrebbe dovuto censurare.
Il film ovviamente si chiude con la liberazione del leader di colore, avvenuta l’11 febbraio del 1990. «L’ho visto in tv a casa con mia madre. Ne sono stato molto scosso - ricorda Fiennes -. All’epoca vivevo a Londra. Ero solo un ragazzino e spesso mi trovavo a passare davanti all’ambasciata sudafricana dove c’era sempre un capannello di persone che faceva firmare petizioni per la liberazione di Mandela. Firmavo sempre.

Era il mio gesto rivoluzionario».

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