da Milano
Oggi il giudice Rosario Lupo è lapidario, schiva le polemiche: «Lassoluzione di Pallini sul Lodo Mondadori? - chiede -. Nessun commento, le sentenze devono essere rispettate, tra laltro in questo caso mancano le motivazioni e quindi ogni commento sarebbe fuori luogo. E poi, per me, ogni processo è identico agli altri». Eppure fosse stato per lui, quando era gip a Milano, questo processo non si sarebbe mai celebrato. Né in primo, né in secondo grado. Così, linchiesta del Pool sulla vicenda del Lodo Mondadori sarebbe finita in soffitta già cinque anni fa. Era infatti il 19 giugno del 2000 quando Lupo respinse la richiesta di rinvio a giudizio firmata dal Pm Ilda Boccassini e da Gherardo Colombo. Dichiarò il non luogo a procedere per tutti gli imputati: «il fatto non sussiste».
Lupo si era letto i faldoni dellaccusa. Trovò i verbali di Rapisarda, di Carlo De Benedetti e dei manager della Cir (controparte nella guerra per la Mondadori), i bonifici bancari e quantaltro. Dopo cento pagine di ragionamenti concluse che «nel caso di specie ci si trova di fronte a semplici (sia pure del tutto legittimi) sospetti che hanno reso doveroso lintervento degli organi di indagine, sospetti che però non hanno trovato quel supporto oggettivo tale da legare in modo certo e inequivocabile tutto il fiume di denaro individuato alla sentenza dappello sul cosiddetto Lodo Mondadori e al suo estensore, il giudice Vittorio Metta». Come dire: mancano i punti di contatto tra gli affari di Pacifico e Metta. Da qui il non luogo a procedere.
Per il Pool questa decisione rappresentò una sconfitta. I Pm reagirono a muso duro. Ricorsero in Cassazione. E trovarono ragione, o quasi. La Suprema Corte riaprì i giochi per tutti gli imputati (quelli assolti lunedì dalla Corte dAppello), ad eccezione di Silvio Berlusconi che uscì definitivamente di scena per intervenuta prescrizione. Alla sbarra Metta, Renato Squillante, Cesare Previti e Pacifico vennero prima condannati in primo grado dal collegio di Paolo Carfì e poi scagionati, seppur con riserva, dalla Corte presieduta da Roberto Pallini. Insomma, un giro delloca frutto delle interpretazioni dei fatti e del diritto per poi tornare, magari con sfumature diverse al giudizio di partenza: tutti assolti.
Eppure Lupo era stato chiaro: «Ad avviso di questo giudice - scriveva nella sentenza - il giudizio prognostico circa la possibilità in dibattimento di aggiungere materiale probatorio che faccia ritenere unevoluzione dibattimentale in senso favorevole allaccusa e che quindi in qualche modo sani linsufficienza e la contraddittorietà degli elementi ricavabili dallo stato degli atti, è sicuramente di senso negativo». Era in qualche modo preveggente: «Appare del tutto superfluo un dibattimento - si legge ancora nel documento - e conseguentemente è doverosa la pronuncia di una sentenza di proscioglimento, attesa linsanabile inidoneità degli elementi a sostenere laccusa in giudizio». Oggi però Lupo fa spallucce: «No comment», ripete dal suo ufficio di gip a Firenze. E pensare che alcuni avevano anche osservato come pochi mesi dopo quella sentenza, Lupo traslocò al Tribunale del capoluogo toscano. Per quella sentenza? «È unaffermazione assolutamente falsa, sono due fatti separati e indipendenti - sottolinea oggi -. Mi sono trasferito per motivi personali come sanno benissimo i colleghi di Milano che conosco e ai quali mi lega profonda stima e amicizia».
Allepoca Lupo confutava passo dopo passo le tesi della Procura, facendo emergere lincertezza degli indizi portati. A iniziare da quelli sulle somme che sarebbero state date da Pacifico al giudice Metta. Lupo accoglieva la spiegazione offerta dai difensori del giudice sulle disponibilità finanziarie riscontrate e giustificate con i lasciti ricevuti da un imprenditore svizzero.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it
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