La Lojodice: «Era una roccia Comico e tragico al tempo stesso»

«Oggi sento solo il vuoto. Ma domani? Come farò senza la roccia cui mi appoggiavo da quarant'anni? Perché Aroldo era una roccia. Comico e caustico, drammatico e tragico come i suoi personaggi. “Non si può essere credibili nel dramma se, della vita, non si conosce il risvolto beffardo della farsa”, mi ripeteva sempre». Giuliana Lojodice, il suo Tieri lo ricorda così. Con una di quelle impuntature impercettibili, appena sfiorate dall'ala immedicabile del pianto, che appartenevano al lessico prediletto da entrambi. Sempre idealmente composti anche quando i testi amati, voluti, imposti dalla severa scuola d'arte di una compagnia di prosa come la loro imponevano al posto del sorriso il cupo volto del dissidio, dell'incomprensione, della noia. Che a volte si risolveva in un insperato happy end com'era il caso dell'incantevole Marito ideale di Oscar Wilde da loro impostato come un vaudeville più perfido che spumeggiante.
Ma che spesso finiva in tragedia quando in un altro copione dedicato al matrimonio, il sottovalutato Marito di Italo Svevo, la tenzone coniugale diventava un match senza esclusione di colpi simile a quella strindberghiana Danza di morte che Giuliana, due anni fa, fu costretta a recitare senza di lui. Che era già uscito in punta di piedi, com'era sua abitudine, da un palcoscenico abitato tutta la vita per non offrire al suo pubblico la delusione di vederlo arrancare tra le parole che ormai gli uscivano a fatica da una memoria che si rifiutava di obbedirgli. Una sconfitta che non voleva dare in pasto a nessuno, lui che in uno degli ultimi exploit aveva dato voce, spasimo dolente e cupo presagio di morte al deus-ex-machina di quel carattere che, nell' Amante inglese di Marguerite Duras, descrive in accenti impietosi il calvario di un'assassina. Lui, che da intellettuale curioso e disincantato, in gioventù aveva tramutato l'imbelle professor Paolino del pirandelliano L'uomo, la bestia e la virtù fino ad allora vittima di sdolcinate gag da avanspettacolo in un moderno disadattato perseguitato da un eterno mal di vivere. Lui che, figlio di un critico militante come Vincenzo Tieri, ha continuato ad avere del teatro un'idea aristocratica al punto di non abdicare mai alla qualità e alle scelte di repertorio.
A cominciare dagli inizi. Non a caso esemplati nella sua partecipazione a quel Mistero della Natività, Passione e Re - surrezione di Nostro Signore che Silvio D'Amico nel'37, quan- do Tieri non era ancora ventenne, aveva desunto dalle più celebrate tra le nostre Laudi. Fino ad approdare, sempre in omaggio a un concetto del sacro ahimè sempre più lontano dalla dimensione spirituale delle nostre platee, alla memorabile prima del Potere e la gloria di Graham Greene che nel'55, sotto la direzione di Squarzina, gli meritò una lettera di riconoscenza da parte dell'autore.

Un talento, quello di Tieri, se non ignorato troppe volte dato per scontato anche da quei critici e teatranti che, volutamente schiavi del mare magnum delle avanguardie, solo a tratti gli hanno dedicato lo spazio che gli competeva. Come se recitare Esuli di Joyce fosse più facile di esibirsi in un Amleto sconciato da urla dissennate e corse di topi meccanici.

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