Controcultura

Da Londra a Vichy, viaggio al termine di Paul Morand

La delusione dello scrittore e diplomatico: "Chi si inganna fa la figura del buon patriota"

Da Londra a Vichy, viaggio al termine di Paul Morand

«A Londra - osserva Paul Morand nel suo diario - avevo tre strade davanti a me». È il settembre del 1944, c'è già stato lo sbarco angloamericano in Normandia e la liberazione di Parigi e a Berna, dove risiede come ambasciatore, è ormai il rappresentante di un governo, quello di Vichy, che non esiste più. Tornando con la mente ai giorni inglesi del 1940, quando la sconfitta militare della Francia l'ha trovato sull'altro lato della Manica, anche allora nelle sue vesti di diplomatico, Morand constata, con amara ironia, di aver scelto la strada sbagliata: poteva «rimanere a Londra», poteva «rientrare, con mezzi sufficienti per vivere quattro anni a Parigi, dimenticato», poteva «fare quello che ha fatto», ovvero servire il governo di Pétain nato sulle macerie e dalle macerie di quella sconfitta. «Due strade su tre erano buone. Ho preso la terza».

Dietro quella decisione ci sono motivazioni diverse, e a volte fra loro contrastanti. Per quanto sia il più inglese degli scrittori francesi, «l'anglomane» per eccellenza su cui ironizza il suo amico Drieu La Rochelle, l'idea dell'esilio lo spaventa: «È la solitudine e la notte. Si parte per qualche giorno, non ci si porta dietro niente, tanto si è sicuri di ritrovare la propria casa, la propria città identica e che vi spalanca le braccia, si attraversa la frontiera per mettere al sicuro qualche persona cara o qualche bene, ma la porta si è chiusa dietro di voi ed è finita per sempre o per vent'anni, lo spazio di una generazione, il che è lo stesso». Anche per questo è tornato, ma anche su questo si è sbagliato. La paura dell'esilio nel '40 non gli eviterà l'esilio nel '45, per un decennio e non per vent'anni, ma quando si sono superati abbondantemente i cinquant'anni e gli orizzonti vanno restringendosi, anche qui, è lo stesso...

C'è poi un sentimento di rivalsa fra le motivazioni che lo spingono a rientrare. «Journal de M. et de Mme. Cassandre» pensa di intitolare la corrispondenza fra lui e la moglie, e le rispettive pagine di diario che hanno preceduto lo scoppio della Seconda guerra mondiale. «Ripenso alla mia conversazione del 28 agosto 1939 con Roland de Margerie. Io: I tedeschi dicono che saranno a Varsavia entro cinque, otto giorni. E lui, seccamente: Non siete obbligato ad adottare i calcoli tedeschi!. Ebbene, avrebbe fatto meglio ad adottarli. Quello che è incredibilmente comico è che chi si inganna fa la figura del buon patriota, dell'uomo di fegato, mentre chi vede giusto appare come un disfattista e un calabraghe». In quanto Cassandra, Morand non si è mai fatto illusioni sulla impreparazione militare della Francia rispetto alla Germania di Hitler, ma non ha bisogno di fare la Cassandra per rendersi conto che il regime di Vichy, frutto di quella impreparazione militare trasformatasi in vergognoso disastro, fa acqua da troppe parti, e anche qui ha scelto comunque la parte sbagliata: «Ci sono più generali che soldati», annota nel 1941; «I rumori di Vichy la notte: il belare dei montoni nel mattatoio, l'acqua dell'Allier, alla diga, sulle pietre. Città piena di funzionari senza ufficio, di uomini di Stato senza Stato, di aviatori senza aerei, di generali senza esercito, di ammiragli senza navi, di sedentari senza casa, di viaggiatori senza visto, di giornalisti senza informazioni» annota nel 1942. E ancora: «Chambrun mi definisce Vichy come la si vede da Parigi, in tricolore. Terrore bianco, mercato nero, biblioteca rosa». Infine: «La finzione di Vichy mi sembra ridotta allo spessore di una carta da sigarette»...

Il Journal de guerre. Londres-Paris-Vichy 1939-1943 che ora Gallimard pubblica (a cura di Bénédicte Vergez-Chaignon, pagg. 1028, euro 27), primo dei due tomi che lo compongono (il secondo, che copre la fine della guerra, la Liberazione, l'epurazione e l'esilio in Svizzera è in preparazione) e da cui provengono i virgolettati precedenti, è stato a lungo un oggetto mitico su cui si era favoleggiato fino a negarne l'esistenza. All'inizio degli anni Settanta, Morand, allora ottantenne, si era risolto a costituire presso la Bibliothèque National un Fonds Paul Morand, di cui si riservava il diritto di consultazione e il divieto di renderlo disponibile agli studiosi fino all'anno Duemila. Nel suo insieme, 122 volumi e/o quaderni, e 23 scatole di documenti, sei metri la loro lunghezza complessiva. Ne fanno parte i due volumi del Journal inutile, già apparsi nel 2001.

Giustamente, l'editore lo definisce «un documento eccezionale per la storia», perché pur se non fu un protagonista di Vichy, Morand fu un osservatore privilegiato del collaborazionismo nonché della sua politica contro gli ebrei, una deportazione che si sapeva senza ritorno, ma di cui ci si lavava le mani lasciando ai tedeschi il compito di sporcarsele sino in fondo.

Va detto anche che per larga parte si tratta di note non lavorate né rimaneggiate o trasformate in memorie, c'è poco di intimo e quindi di introspettivo. Morand ne era perfettamente consapevole: «Mi rendo conto che non hanno alcun valore umano, letterario. Niente visioni storiche, né ritratti, atmosfere o descrizioni. Per mancanza di tempo e per pigrizia, do qui il minimo. Rilavorarle un giorno? Niente è più noioso delle memorie inamidate».

La curatrice del Journal sottolinea come spesso quello di Morand sia lo sguardo di un testimone miope: comprende ciò che succede con ritardo, non sempre si rende conto dell'importanza di quel che sta avvenendo... È una miopia che lo riguarda anche in prima persona. Morand rientra in Francia da Londra perché considera il governo di Vichy legittimo, e illegittimo quello che de Gaulle vuole installare nella capitale inglese. Scrive un rapporto confidenziale in questi termini, dove sottolinea le ambiguità e i pericoli di una diplomazia francese rimasta oltremanica senza guida e soggetta alle pressioni britanniche. Viene accusato di abbandono di posto, di mancanza di spirito di corpo, di aver infangato i colleghi. Un «torchon», uno scritto senza valore, viene definito quel rapporto dal ministro degli Esteri Baudouin e viene congedato dal servizio. «Mi hanno silurato per il mio gollismo» commenterà ironicamente due anni dopo, quando viene reintegrato. E ancora. «Morand anglofilo è divenuto germanofilo dicono le signore in visita e durante le cene. Una sola cosa non è mai contemplata: quella di essere francofilo. Vi si dice: Siete cambiato. E la Francia, che da grande Paese vincitore è divenuto un piccolo Paese vinto, non è anche lei cambiata? E l'Inghilterra, che da alleata generosa è divenuta l'avversaria di Mers el-Kebir (1500 morti francesi) non è anche lei cambiata?».

Sull'antisemitismo di Morand, crudelmente mondano quanto ideologicamente radicato, e su quello di Vichy, l'introduzione di Bénédicte Vergez-Chaignon spende molte pagine. Come tanti, anche Morand a Vichy «sceglie deliberatamente di non vedere, di mentire e di mentirsi, per rimanere in un rifiuto sostenuto, alla meno peggio, dall'egoismo, dal rancore, da un preteso realismo». Eppure, più volte, una su tutte, Iréne Némirovsky, anche Morand si dà da fare per salvare qualche ebreo che conosce, e a volte ci riesce...

Ciò che, abbandonando il campo della storia, rende comunque questo diario interessante è quando il diplomatico o l'asettico cronista cedono il passo allo scrittore: «La Francia è un piccolissimo Paese con una letteratura troppo grossa per lei» replica se qualche «confrère» gli dice che i tedeschi dovrebbero avere soggezione per il suo prestigio letterario... A un ricevimento dove il personale è fatto di camerieri polacchi osserva: «Il servizio polacco sta alla cucina come lo stato-maggiore sta all'esercito polacco come l'esercito polacco sta alla guerra: isteria, inefficienza, presunzione». Sulle donne, gli viene spontaneo notare che «anche quando non sanno quello che dicono, sanno quello che vogliono; e anche quando non sanno quello che vogliono, sanno quello che fanno». Sorvolando la Manica gli viene da pensare «a una goccia di assenzio in una caraffa d'acqua: da quella opalescenza uscirono delle falesie di un bianco lattiginoso, con un mare di sfumature verdi e un segnatoio di ceramica sassanide e di correnti rosa». A una cena dove è presente anche Céline, arrivato «in motocicletta, sempre genere meccanico dell'era quaternaria», e dove si parla di un possibile sbarco alleato, lo sente dire: «Mi piacerebbe prendere le mie disposizioni, perché sarò fra i primi cinque o sei. Voi non siete che nel primo centinaio». Naturalmente, per Céline, «Hitler è l'isterico di turno», manovrato dal grande capitale... Mentre attende di entrare da Laval, che governa Vichy in nome di Pétain, sente «il ticchettio dell'orologio a pendolo, il lampadario che ondeggia, il rumore del nastro dell'usciere contro il tavolo, il chiacchiericcio degli agenti di sicurezza in borghese, la voce del presidente attraverso la porta a soffietto, i tacchi delle dattilografe, il sordo campanello del visitatore da introdurre, la vettura di quello che riparte». Una frase di Stendhal, «le cose grandi sono belle e bisogna dirle con la maggior semplicità possibile, come se si dovesse cercare di non farle rimarcare», gli suggerisce un paragone: «È in letteratura quello che Brummel voleva in materia di vestiti»...

Per tanti anni, il Morand diplomatico era stato messo in aspettativa dal Morand scrittore e viaggiatore.

Adesso che, nell'ora più difficile, il primo ha sfortunatamente per lui preso il sopravvento, al secondo non restano che questi ritagli, timidi bagliori in un viaggio al termine della notte.

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