Controcultura

La Lucia cieca di Samorì vede il buio del martirio

L'intervento iconoclastico sul volto della santa esprime il tormento della figurazione che sfigura

La Lucia cieca di Samorì vede il buio del martirio

Nessun pittore del nostro tempo può affiancarsi a Caravaggio: posto a contatto, al suo cospetto, immediatamente stinge e muore. A ognuno il suo destino. E forse soltanto chi ha praticato l'avanguardia può riuscire a ingannare, a fare altro che, svuotato della vita, mostri della sua vuota forma la morte, che non può rappresentare. È accaduto al Mart di Rovereto, dove la calata del Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio ha fatto il vuoto intorno a sé, generando specchi in cui si rifletteva la sua ombra, fantasmi di pittura: Burri, Cagnaccio di San Pietro, Hermann Nitsch, Nicola Verlato, Margherita Manzelli. C'erano, dialogavano, potevano non esserci. «Arso da più fuochi di quanti non ne accesi», scrive Racine, e questo fa Caravaggio: terra bruciata intorno.

Samorì è giovane ma viene da lontano, intende subito che non deve misurarsi con Caravaggio, ma stargli a latere. Il collegamento è nella ossessiva riflessione su Santa Lucia. Tutta dentro la pittura, senza sconfinamenti nella vita (e nella morte). La metafora è semplice: la testa è tagliata non dal coltello ma dal pennello, che si insinua sotto il colore. Da lì parte una meditazione che tiene conto di tutto, ma senza misurarsi. In Samorì il pensiero della pittura è un «a priori», e procede per esclusione. Nicola Samorì sfigura e trasfigura, sfinendo i corpi in anime. Nulla è più lontano della sua pittura dalla realtà. Samorì non entra in gara, non si confronta. Da molti anni egli procede a una metapittura. Nel senso che non dipinge la realtà, ma la pittura stessa. Con una curiosità inesauribile, e alcune predilezioni. Sente affine molto più Ribera che l'inarrivabile Caravaggio che lascia all'intenso Verlato, perché si bruci; l'essenziale Guido Reni, il sensuale Guido Cagnacci, il sofisticato Bernardo Cavallino. Ma, nonostante il Seicento sia il secolo più macabro, più vicino alla morte, che Samorì vagheggia, non ritiene strano e lontano neanche Bronzino, e forse neppure Vasari, così rigidamente alieni dal male e dalla morte.

Una grande pittura, uno strappo d'affresco di Samorì, d'après Bronzino, domina una intera parete al Mart. E non è un corpo estraneo; è un'apparizione, un fantasma. Qualunque artista gli può esser affine, a chiunque Samorì strappa il corpo e l'anima. Ma può arrivare a raffinatezze supreme, essendo nella realtà più lontana, l'immagine più ascetica, come è il San Giovanni Battista di Ercole de' Roberti dei Musei di Berlino, un piccolo dipinto ripetuto, e lacerato, abraso. Perché Samorì non è davanti alla realtà, ma davanti ai dipinti dei maestri che l'hanno prima di lui rappresentata, colmando immaginazione e spazi. Certo il suo riferimento non è Caravaggio nella ispirazione drammatica e teatrale, ma Ribera, i suoi soggetti asciutti, le sue superfici graffiate, più carne della carne, più lividi dei lividi. Dunque Samorì si rassegna a essere un accademico, a riprodurre grandi maestri con qualche variazione, con diverse gamme cromatiche? E allora occorre una soluzione, che attraverso la morte della pittura, porti la pittura dentro la morte. Ed ecco la fase successiva. La pellicola pittorica, senza violenza, senza gesto viene raschiata, lasciando una vaga impronta sul supporto di pietra, travertino o alabastro, e di metallo, più raramente tela. Con interventi iconoclastici Samorì fora, gratta, spella letteralmente la pittura attraverso un gesto repentino o meticoloso, dando vita a nuove opere che affondano le loro radici nella tradizione della storia dell'arte per poi arrivare all'espressione del tormento con un linguaggio contemporaneo.

Con queste parole la critica concorde definisce il procedimento. Ma dietro, cosa c'è? I ferri di Burri, forse? Intanto le reliquie della pellicola pittorica, strappate dalla superficie del supporto, restano in vetrina come reliquie; e alcune sculture di marmo di Carrara parzialmente eroso, consunto, lebbroso, deformato, indicano un processo analogo a quello della pittura. L'opera, che riproduce fedelmente una di quelle dei maestri sopra ricordati, assume un nuovo volto, quando non lo perde.

La figurazione si fa sfigurazione, e il risultato è vagheggiare la morte, uccidere l'idea di bellezza, di grazia, per entrare in una realtà interiore, ascetica, meditativa. Guardare le opere di Samorì è una esperienza insolita, travolgente come l'esperienza mistica di Juan de la Cruz. Spirituale e formale. Poeta o santo? Poesia o preghiera? Può essere preghiera la poesia, poesia la preghiera: «Più salivo in alto/ più il mio sguardo s'offuscava,/ e la più aspra conquista/ fu un'opera di buio;/ ma nella furia amorosa/ ciecamente m'avventai/ così in alto, così in alto/ che raggiunsi la preda». La preda è raggiunta: è la pittura. Ma è anche l'anima. Conquista del buio. Notte oscura. Come Juan de la Cruz, Samorì è consapevole della luce nel buio.

Nascita e morte coincidono nel destino della vita degli uomini. Samorì nasce nel 1977, tre anni dopo che Giorgio Agamben restituisce alla nostra lingua le Coplas di Juan de la Cruz: musica, ma anche immagini. Già anche questa impresa è un metatesto: per Marcella Ciceri è «tradurre» l'indicibile. Tutta l'opera pittorica, o metapittorica, di Samorì trova la sua spiegazione in altre Coplas (questa volta nella traduzione di Cristina Campo): «Per arrivare a sapere tutto/ non voler sapere nulla in nulla./ Per arrivare a godere tutto/ non voler godere nulla in nulla./ Per arrivare a possedere tutto/ non voler posseder nulla in nulla./ Per arrivare a essere tutto/ non voler essere nulla in nulla».

E come la pittura che ama la pittura esclude l'idea di affrontarla oggi, chi ama la poesia evita di farla. Non cade nella trappola. Altre coincidenze stringono Caravaggio e Samorì, fino al rischio di ardere e sparire, farsi polvere: «hic iacet pulvis, cinis et nihil», si legge sulla lapide anonima sulla tomba della famiglia Barberini nella chiesa dei Cappuccini a Roma; e, ancora, nei meravigliosi e celebrativi monumenti funebri di porfido e serpentino, di Angelo e di Vittoria Altieri, nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, lui è chiamato «nihil» e lei «umbra».

Per questo il critico naturale di Samorì sarebbe stato Giovanni Testori, che di Caravaggio e della morte molto scrisse, ma che ci ha lasciato nel 1993, prima che Samorì iniziasse a dipingere. Certamente la critica di Testori lo ha rassicurato. Testori fu certamente, per Samorì, tanto più se involontariamente, uno spirito guida. Entrambi si muovono nel Seicento, entrambi vedono quello che non c'è. Testori dipinge con la parola, Samorì scrive d'arte con la pittura. La critica come visione; la pittura come riflessione. Così Testori affronta La battaglia di Sennacherib di Tanzio da Varallo nella chiesa di San Gaudenzio a Novara: «Lo guardi il paziente lettore: cumuli di fango, ferro, acciaio, fuliggine e catrame... Neanche la Biblica città si fosse trasformata di colpo nel raduno di tutti i Sesti San Giovanni e di tutte le Bovise dell'universo mondo! Neanche avesse voluto, il grande, disperato Tanzio anticipare il maledicente invito registico (e no) dell'Ambleto lomazziano: più in dell'iscuro! Più in dell'iscuro! Più ingravidate quelle nigore! Più ingravidate e anca più inciostrate!». Già, «più in dell'iscuro e più inciostrato» di così, che c'è, se non, appunto, l'inferno: anzi, «l'inferna»?.

Una prosa autoreferenziale nella quale si annuncia ciò che Samorì non dipingerà. Più uno stato d'animo che una pittura, più una ascesi che una rappresentazione. Una rinuncia, alla forma e alla luce. Un notturno, ecco. Uno stabile notturno cui si contrappongono bagliori d'oro che, in diverso modo, negano l'immagine. A Samorì interessa ciò che non si vede. E non è dolore anche se è martirio. È come in Juan de la Cruz, la luce del buio. La luce degli occhi di Lucia, anche quando siano buchi o trafori dell'alabastro, da cui esce una scia di polvere di marmo. O, se è dal colore, strisce di pittura raggrumata. L'immagine deve essere disturbata: scrostata, immersa nell'acido, ritagliata nel supporto, appiccicata, negativo di se stessa, niente. Se potesse dire ciò che vede sotto il rame, sotto la pietra, sotto l'affresco, Samorì non direbbe l'immagine o il soggetto rappresentato, Lucia, e neppure il tormento del suo sacrificio. Direbbe: radiografia. Ma prima, l'immagine, che non è il vero, bisogna pur concepirla; e poi dipingerla. Una volta che ce l'hai, puoi flagellarla, torturarla, negarla.

E la realtà non sia.

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