Controcultura

L'ultimo tragico capitolo in cui predisse la fine della nostra civiltà

L'Europa in crisi, il dialogo serrato con l'idealismo e il recupero della religione: l'attualità del pensiero di don Benedetto

L'ultimo tragico capitolo in cui predisse la fine della nostra civiltà

Il 30 settembre 1948 Benedetto Croce scrisse una novella o, come disse lui stesso, un «ghiribizzo» così intitolato: Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel. Il racconto uscì prima come opuscolo e poi divenne il primo capitolo dell'ultimo libro di Croce: Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. Nella novella s'immagina che un certo «Francesco Sanseverino di Napoli» si rechi in visita a Berlino da Hegel e nel dialogo tra il tedesco e l'italiano la filosofia hegeliana è sottoposta a una impietosa critica fino a sfociare nello «storicismo assoluto» di Croce. Il dialogo tra il vecchio Hegel che in realtà tanto vecchio non era e il Sanseverino è il dialogo tra Hegel e lo stesso Croce che ne trae occasione per rimarcare pregi e difetti dell'idealismo tedesco ed evidenziare il carattere diverso del suo storicismo. Tant'è che il confronto tra Hegel e Croce è possibile concepirlo come un dialogo di Croce con sé stesso e, anzi, come un corpo a corpo finale. In quelle pagine si legge, ad esempio, che la grande verità del celebre aforisma hegeliano ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale «talora par vacillare in chi sente la presenza ben effettiva e terrificante del male contro cui combatte». Ancora riferito a Hegel ma come se fosse riferito a sé medesimo: «La sovranità filosofica, che egli aveva esercitata nell'ultimo decennio e che stava ancora in pieno vigore, non l'inebriava. Né è da credere che fosse soddisfatto e sicuro dell'opera sua». Infatti, il figlio Carlo lo udì esclamare: «Quale Dio mi ha dannato a fare il filosofo?». E la moglie raccontava che lo sentiva dire: «Non ne caverò le mani!».

L'ultimo Croce, quello dei saggi riuniti in Filosofia e storiografia e, appunto, dell'ultimo gran confronto con Hegel, è di una bellezza sconvolgente. Il vecchio filosofo ha, ormai, ottant'anni e sembra il canuto Platone che, nel rispetto del daimon filosofico, rimette mano alla sua teoria delle idee per saggiarla ancora al cospetto di una storia e di una civiltà or ora uscite dalla Seconda guerra mondiale scatenata dalla Germania di Hitler ma sulle quali ancora pende, come un fato maligno, l'incubo totalitario comunista in cui la creazione umana si fa distruzione e dis-creazione. Davanti a questo «male radicale», la stoica razionalità del suo storicismo tiene ancora? Ecco perché ha fatto bene, benissimo la casa editrice Morcelliana a pubblicare un volumetto intitolato La fine della civiltà. L'Anticristo che è in noi che raccoglie, oltre ai due testi citati fin dal titolo, altri due scritti Il peccato originale, La vita, la morte e il dovere in cui Croce si mostra, come dice anche il curatore del libro Ilario Bertoletti, davvero un nostro contemporaneo.

Per mostrare la grande attualità dell'ultimo Croce basta leggere l'incipit del libro: «Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea». Non avvertiamo a pelle il senso della fine della civiltà europea? È un'illusione dice Croce con crudezza che la civiltà umana «sia la forma a cui tende e in cui si esalta l'universo» e così ci vuole «uno sforzo penoso per passare alla diversa visione della civiltà umana come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire» e il suo pregio «non è nell'eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa». Il volume è corredato dal saggio conclusivo del curatore che reca questo titolo: Benedetto Croce e il liberalismo religioso. Attraverso una lettura dell'ultimo Croce si sostiene che il liberalismo religioso di Alberto Caracciolo e Pietro Piovani ha proprio in Croce, al quale era cara la figura del Christus patiens, un interlocutore irrinunciabile. È come se nell'ultimo Croce vi fosse un recupero della religione che non è più la mitologia che è dissolta dalla filosofia ma il mythos su cui il logos ricalca i suoi pensieri e le sue metafore. La filosofia non nasce in Grecia come tentativo di sanare la dimensione tragica dei mortali? Ecco, è proprio il tragico che emerge nell'ultimo Croce del vitale pensiero: «... la vita umana è sempre inquieta e non conosce riposo».

Così l'ultimo Croce nasce non tanto dalla crisi del suo pensiero quanto dall'accentuazione della sua dimensione ermeneutica in cui il celebre e citato aforisma hegeliano acquista un senso nell'etica in cui si sceglie di lavorare la vita e la vitalità a fin di bene.

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