L'uomo e l'orologio, un confronto sempre aperto

Dalla riflessione sul tempo all'oggetto ricercato Come il poeta Belli mise in versi i cronometri

Roberto Fresi

Si discute da tempo immemore sulla funzione dell'orologio in rapporto al suo possessore o, in termini più generali, sull'interpretazione data dall'uomo all'orologio considerato il suo «scomodo» ruolo d'ineluttabile espressione del passaggio del tempo. E, allora, ecco l'indicatore di status, l'accessorio che completa la propria immagine «alla moda», l'oggetto «anonimo» che serve solo ad indicare l'ora e del quale comunque con si può fare a meno, l'oggetto sognato da custodire e portare solo in rare occasioni per il puro piacere di farlo, e così via. Tutto questo, evidentemente, prescinde dalla tipologia di segnatempo ed investe in senso lato la sua quotidianità vissuta al servizio di chi, con il tempo, ha bisogno di confrontarsi costantemente, tanto o poco che sia.

È certo, però, che la questione si è posta in modo pregnante, nel momento in cui lo strumento misuratore di ore e minuti è divenuto d'uso squisitamente personale, da puro riferimento pubblico. Uno dei più fini e acuti osservatori di usi e costumi sociali, di straordinaria attualità ancora oggi, è stato, senza dubbio il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli, vissuto nella Roma papalina del primo Ottocento e la sua sagacia non ha risparmiato l'articolato rapporto dell'uomo con l'orologio. A partire dal suo significato più negativo come simbolo e suggello dei sepolcri dove il tempo umano si dissolve nell'eterno, espresso nella famosa terzina: «La morte sta anniscosta in ne l'Orloggi,/e ggnisuno pò ddì: ddomani ancora/sentirò bbatte er mezzogiorno d'oggi».

E addirittura l'indicazione dello scorrere del tempo diviene termine di paragone nella descrizione di uno stalliere che sottrae la biada ai cavalli attraverso un buco operato nella mangiatoia, «...come fussi un orloggio a porverino», in riferimento alla clessidra. Il concetto del prestigio, però, inevitabilmente emerge nel sonetto «Er bracco rinciunciolito», in cui un «birro», ossia un poliziotto, accresce la propria eleganza, proprio grazie all'orologio, in bella mostra accanto alla «saraca» (spada), destando l'invidia del suo interlocutore: «St'orloggio in panza e sta saraca ar fianco/Ve da ll'aria d'un scribb'e fariseo». Ma anche il prete lo porta con sé «pe ssapè ll'ora de cantà ll'uffizio»: una disdicevole vanità, per un sacerdote. In un simile contesto, ecco, poi affermarsi prepotentemente la potenza del marchio, come indicazione di status. È il caso degli «antichi oriuoli» firmati Isaac Soret (orologiaio ginevrino, attivo nella prima metà del XVIII secolo), dei quali i vecchi romani erano certi della perfezione e che il popolo riteneva «mirabile opera della meccanica». Simpaticamente indicati in modo antonomastico, li troviamo, ad esempio, nel sonetto «L'Arbanista» (ebanista), che per giustificare il prezzo elevato di due cassette di noce lucidate, afferma: «Maa, averete du' cose arissettate/Com'e ddu' orloggi de Sacchesorette». Segnatempo ricercati anche dal Papa, tanto che, nel sonetto «L'affari de stato», il buon Gregorio XVI, «guarda er zu' orloggio d'Isacchesorette/E aspetta l'ora che sia cotto er riso». La motivazione primaria dell'uso dell'orologio, ossia quella d'indicare l'ora, si palesa nel sonetto «L'affaracci de la serva», quando questa dà appuntamento al suo innamorato: «A ssei ora viè p'er vicoletto,/E sta' attent'a l'orloggio quanno sona».

Insomma, ieri come oggi, dell'orologio difficilmente si può fare a meno, vuoi semplicemente per sentirlo al polso, vuoi perché, quanto meno per noi maschietti, è l'unico «gioiello» di cui possiamo fregiarci. L'orologio è e sarà sempre al centro della nostra quotidianità, protagonista esso stesso, oppure, affascinante mezzo per rendere noi protagonisti.

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