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"Macché Chiara Ferragni, molto meglio Giovanni Rana"

Scrive e insegna pubblicità dal 1990: "I testimonial come lei o come Clooney passano da un marchio all'altro, ma non lo rappresentano"

"Macché Chiara Ferragni, molto meglio Giovanni Rana"

Paolo Iabichino, milanese classe 1969, in arte Iabicus, scrive pubblicità dal 1990. Sono sue le campagne per Nutella (2012-2018), Emporio Armani Eyewear, Chiquita, FCA (nel 2017-18). Per anni è stato ai vertici di WPP come direttore creativo del gruppo Ogilvy, fra le agenzie pubblicitarie di punta.

Autore di saggi sulla comunicazione pubblicitaria e la scrittura civile, ha inventato il concetto di invertising: così s'intitola il libro-manifesto dove reclama l'inversione di marcia di una pubblicità (advertising), rinnovata e consapevole.

Come è cambiato il vostro mestiere? La buona penna è ancora sufficiente o ormai contano di più le competenze in marketing, neuromarketing, sociologia, psicologia?

«La buona scrittura, che prima di tutto è talento, non basta più. Un tempo il copywriter aveva un unico strumento nella cassetta degli attrezzi, ovvero la retorica e un certo tipo di estensibilità verso la letteratura, poesia, cinema, arte visiva. Oggi a tutto questo vanno aggiunti più saperi, dalla sociologia alla psicologia, al neuromarketing: aiutano a leggere le tensioni culturali dei nostri tempi e a conoscere come il nostro scrivere attivi o disattivi determinati bias (sono le distorsioni e i pregiudizi che le persone usano nella valutazione dei fatti; ndr). Se devo produrre un cambiamento, devo agire sui bias, su campi percettivi, quindi devo avere conoscenze di neuromarketing, senza però abusarne. Puoi tuffarti nei libri di neuromarketing per diventare campione della scrittura a risposta diretta (che ha per obiettivo convincere un lettore a compiere un'azione) oppure puoi leggere i testi di Paolo Legrenzi facendo sì che quel tipo di sapere intervenga nello scrivere in maniera sana e non manipolatoria».

Nella campagna per Levissima del 2016, con la sua squadra di Ogilvy, ha dato un colpo di spugna al testimonial storico. Una risposta ai nuovi tempi?

«Traslammo un grande patrimonio di marca, decidemmo di riposizionarlo e attualizzarlo rinunciando al testimonial che aveva cannibalizzato il brand. Avvicinammo il marchio a tutte le persone per dire che tutti ci misuriamo con sfide e abbiamo grandi vette da raggiungere. In quel caso entrava in campo la logica della spinta gentile, dei piccoli suggerimenti che permettono alle persone di superare ostacoli quotidiani. Ero in Ogilvy e c'era una divisione che si occupava di questa disciplina. Fu cosa semplice attivare gli psicologi cognitivisti per mettere a terra una creatività scientificamente provata anziché l'invenzione del creativo».

I testimonial in realtà ancora resistono, ma c'è chi lo considera un fenomeno al tramonto.

«I testimonial più prezzolati come i Clooney e Ferragni di turno passano da un marchio all'altro per fare cassa, viene quindi a mancare l'adesione del personaggio al brand. La figura del testimonial funziona se c'è il Giovanni Rana della situazione, in questo caso il rispecchiamento è totale, una figura così è ambasciatrice del brand con tutti i suoi valori. Cambia il discorso con il terzo settore. Nel no profit ha senso l'adesione del personaggio a cause diverse, penso a Andy Luotto, a Checco Zalone, a Renzo Arbore. Qui il testimonial interviene perché ha aderito a quella determinata causa. Nel mondo del profit invece solo raramente si compie l'adesione al brand».

Quali sono le campagne di comunicazione non sue che ama?

«Trovo che Patagonia faccia un lavoro straordinario. È un caso cui mi ispiro quotidianamente. Sta facendo ottime cose in Italia, perché va detto che Patagonia non adatta ai vari Paesi un format internazionale. A Roma ha aperto uno spazio di coworking dove non vende nulla, mette a disposizione il co-lab gratuitamente per le associazioni ambientaliste che non possono permettersi un luogo dove poter lavorare. Guardo con interesse al lavoro fatto da Banca Etica, ad alcune campagne fatte da We are social come quella realizzata per Netflix».

L'Italia è il Paese del bello. Come lo comunichiamo?

«Non lo comunichiamo adeguatamente. La comunicazione turistica del nostro Paese è spesso superficiale e ricca degli stessi stereotipi che ci caratterizzano all'estero. Da qui in avanti è tutto da costruire, accantonando le logiche tradizionali che sono purtroppo ancora troppo legate a pratiche burocratiche che non riescono a raccontare il nostro patrimonio come merita. Vediamo un uso di testimonial non sempre adeguati, la mente va a Dustin Hoffman che legge L'Infinito di Leopardi per la Regione Marche. Paradossalmente fanno meglio i brand con una fortissima caratterizzazione territoriale. La Birra Ichnusa racconta la Sardegna meglio di quanto faccia l'ente di promozione turistica locale così come il racconto della Sicilia fatto dall'Amaro Averna supera quello dell'ente di promozione. Complimenti ai brand che riescono a fare questo tipo di lavoro. Viva l'Umbria di Brunello Cucinelli che fa meglio di quanto non riesca la comunicazione del territorio. Mi sento di lanciare una provocazione, un gioco».

Cioè?

«Dovremo affidare la promozione dei territori a quelle marche che sanno interpretare meglio i valori identitari di una regione, di una città, di un borgo o anche di un'intera comunità. Facciamo che il pubblico si affidi al privato per ritrovare sensibilità, talenti e atteggiamenti progettuali che sembrano mancare completamente alla maggior parte delle nostre campagne di destinazione. Cosa accadrebbe?»

Le piace il lavoro di comunicazione promosso da Eike Schmidt agli Uffizi di Firenze?

«In questo momento, gli Uffizi sono l'unico brand culturale che sta lavorando con grande cognizione di causa sui temi della promozione. Sta contaminando piattaforme e linguaggi, da quello dell'influencer a quello del gaming. Il direttore fa un lavoro straordinario di brand identity, si è affidato a maestri del settore come Carmi e Ubertis. Così, partendo dalla brand identity, ne beneficia tutto il resto perché per rispettare un piano narrativo così sofisticato tu devi poter attivare dispositivi di comunicazione all'altezza. Il bello contagia, più cose belle vedremo in circolazione e più ve ne saranno».

Cosa non può più essere la pubblicità?

«Ha finito di essere un messaggio dall'alto. I clienti vanno ascoltati, dobbiamo riflettere sulle tensioni sociali che li coinvolgono, e a questo punto bisogna attivare il concetto di conversazione. I clienti scelgono i propri brand per fare un pezzo di strada assieme. Comprare un prodotto è una questione serissima ormai».

Un esempio di campagna che va esattamente in questa direzione?

«Quella di Lego. Nella sua campagna Rebuild the World ha invitato tutti a guardare il modo in una nuova prospettiva di costruzione e ricostruzione della realtà secondo nuovi paradigmi. Non si tratta soltanto di un video emozionale, ma di raccontare il proprio brand con onestà e impegno verso i propri clienti. La comunicazione di Lego è diventata una sorta di call to action, un modo per incentivare azioni virtuose nel mondo».

Vivere di scrittura non è mai stato facile. Lei è riuscito, e con successo.

«Sono stato molto fortunato perché ho impiegato il mio scrivere al servizio di un'industria che paga bene lo scrivere».

Nel 2018 ha chiuso con Ogilvy. Perché?

«Avevo bisogno di ritrovare la mia identità, un mio modo di comunicare che non fosse dettato soltanto da tensioni commerciali o peggio ancora da quelle organizzative, desideravo che a guidarmi fossero le mie tensioni interiori. Stiamo attraversando un'epoca incerta che ci impone di trovare nuove soluzioni ai vecchi problemi del mondo».

Domanda allo Iabichino docente. Da 0 a 10 quanto conta il talento per la scrittura e quanto incidono l'applicazione e lo studio?

«Cinque talento e cinque studio applicazione. È un rotondissimo dieci che deve saper combinare questi due elementi. Sta a chi insegna saper individuare il talento e stimolare l'apprendimento. Non è responsabilità di chi si affida a noi riconoscere il proprio potenziale e allenarsi ad esprimerlo al meglio. Così come non è possibile immaginare che chi sta imparando si innamori dei percorsi formativi necessari a far detonare il proprio talento. In realtà non mi piace definirmi docente. La Scuola Holden mi ha insegnato a essere maestro, con tutto il bello di questa parola antica che fa di ciascuno di noi prima di tutto un mentore che insegna, ispira e motiva».

Che dire della proposta di abolire lo scritto di italiano all'Esame di Stato? E più in generale: come si risolvono le difficoltà dei nostri ragazzi nello scritto?

«Le difficoltà nella scrittura si risolvono con la lettura. Ma una lettura che non può essere imposta dai programmi ministeriali. La letteratura dei nostri ragazzi oggi è la musica indie o la trap, può non piacere, ma se l'hip pop prende la scena, chi entra in aula deve avventurarsi nella parafrasi di questi testi. Trovare similitudini inedite con il romanzo, la poesia, l'epica. Creare associazioni che facciano innamorare ancora chi studia delle fondamenta che hanno dato origine a tanta parte della scena culturale, nazionale e internazionale. Abolire lo scritto di italiano, abdicare al rinnovamento: è la scorciatoia più comoda per un mondo di adulti che non sa più sintonizzarsi con quello delle persone a cui insegna».

È alta la percentuale dei nostri studenti che - vedi i test Invalsi - non raggiunge gli standard minimi in italiano. Consigli ai docenti?

«Rinunciare alle performance valutative. Accompagnare chi studia in un percorso educativo che tenga conto delle individualità, dei talenti, delle specificità di ciascuno. Inseguire le classifiche delle migliori scuole, vivere l'apprendimento solo in funzione dell'occupazione professionale e performativa vuol dire costruire piccoli manager senza umanità».

Alcuni marchi ricorrono alle redazioni dei giornali per comunicare. Si va dai sughi Barilla, che ha coinvolto il National Geographic, alla serie tv Narcos di Netflix che ha lavorato con The Wall Street Journal. Come si spiega questa contaminazione?

«La comunicazione pubblicitaria sempre più spesso si affida a contenuti laterali per richiamare l'attenzione dei propri interlocutori, è come se la pubblicità avesse perso il proprio carisma e si trovasse nella necessità di farsi aiutare da professionalità più credibili, da sensibilità diverse per dare ai prodotti un'aurea più nobile, meno ruffiana, più autentica. Il brand journalism, congiuntamente con il marketing dei contenuti, il cinema e le produzioni artistiche contribuisce ad accrescere il valore di un prodotto».

Lei come si informa?

«Sui giornali di carta, è un appuntamento irrinunciabile di ogni mia giornata. Mi permette informazione, approfondimento e ricerca, e poi trovo nella qualità dei miei feed ulteriori spunti, curiosità o ispirazioni per continuare a fare questo mestiere».

Le notizie negative vincono su quelle positive, tanto giornalismo ne ha fatto la propria ragion d'essere. Ha ancora senso?

«Raccontare tragedie e fallimenti è un buon modo per attirare l'attenzione di un lettore. Il punto è che con la rete queste informazioni possiamo trovarle ovunque, e allora perché pagare per averle? Ed è così che per attirare l'attenzione dei lettori gli articoli sono diventati sempre più sguaiati, esasperati. Se l'obiettivo non è più informare ma vendere, i lettori non sono più il nostro pubblico, ma diventano soltanto degli utenti e la fiducia si spezza.

Credo nel giornalismo costruttivo, in un nuovo modo di guardare alle notizie».

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