Enrico Groppali
Le prime fotografie di Juliette Gréco (domani al Teatro Manzoni), splendida ventenne di origine corsa, ce la mostrano con i lunghi capelli neri che le scendono, come scrisse Cocteau, «su quelle spalle d'alabastro degne di una statua di Fidia» in bilico sui minuscoli palcoscenici delle boites di Saint-Germain-de-Près mentre la grande bocca sensuale, atteggiata a un riso sbarazzino, intona con languore Rue des blancs manteaux.
La canzone che Sartre scrisse per lei e, grazie al successo della sua interpretazione, figurò per sempre nel copione del suo capolavoro A porte chiuse. Dove, se ricordate, i personaggi non sono più uomini e donne ma soltanto larve che, dal profondo dell'Averno, ci comunicano la loro angoscia di morti vivi con accenti non dissimili da quelli che, nell'inferno fumoso dei sottoscala della Rive Gauche, intonava colei che il suo eterno innamorato François Mauriac aveva battezzato «le beau poisson blanc et noir». Più tardi, quando nellItalia provinciale degli anni del dopoguerra arrivarono i primi dischi della Musa dellesistenzialismo, i settimanali di casa nostra, ancora incerti se classificare il suo prepotente charme mediterraneo tra i reprobi o tra gli eletti, optarono per un «doppio binario». Da una parte l'Europeo ci mostrò una Gréco in via di santificazione che, sguardo perso dietro il volo dei colombi, fissava il cielo dal sagrato di Notre Dame, mentre, dal fronte opposto, il settimanale Epoca diffuse le «scandalose» pose dell'artista che, riversa tra cuscini e lenzuoli in abito da sera accanto all'amica d'infanzia Annabelle, moglie di Bernard Buffet, fumava l'ennesima Gauloise tendendo al fotografo un lembo di carta che proponeva, sarcastico, l'assioma coniato per lei da Monsieur Sartre, ovvero «Io sono quel che sono». Arrivarono poi le sue indimenticabili canzoni d'amore che, in quegli anni, rischiarono persino di rovesciare, col loro incontrastato successo, il trono del più famoso passerotto di Francia, la mome Edith Piaf.
Dall'inno gioioso all'eterna giovinezza della Ville Lumière, quel Paris canaille dove la cantante, battendo ritmicamente i tacchi con indiavolata protervia, enumerava tutta la toponamastica parigina, le gambe flessuose e lunghissime a cavalcioni sul pianoforte di Kosma, il suo profilo da monella assumeva l'aspetto di una statuina di Tanagra fino a quel C'est si bon che molti francesi ancor oggi preferiscono alla Marsigliese e lungo la Senna è il leit motiv degli innamorati.
Poi venne il cinema a portarcela via. Cosa che da lei non ci saremmo mai aspettati quando Jean Renoir, in Eliana e gli uomini, la contrappose nientemeno che a Ingrid Bergman cui sottraeva, vestita da gitana, le mani affusolate protese verso l'uniforme di Jean Marais, l'ufficiale di complemento da cui dipendevano le sorti della Grande Guerra. Ma se Hollywood (e il produttore Zanuck) ebbero per un attimo il sopravvento rischiando di umiliare la sua arte in una serie di pellicole colorate e chiassose che le fruttarono solo uno sporadico flirt con Marlon Brando, presto Parigi riaffermò i suoi diritti sulla sua prodiga figliola. Tanto che nel 60, al Bobino, la ragazza che con una risata liquidò la proposta della Fox di interpretare Cleopatra, finalmente tornò col più struggente dei suoi chants d'amour. Un assolo a fine concerto intitolato C'était peut-etre che le procurò 20 minuti d'applausi dove, sul ritmo suadente di un mandolino, Juliette la francese delusa dall'America rassicurava i suoi compatrioti. «È stato forse un fuoco di paglia, l'illusione di cambiar pelle e sfidare il destino, il lampo di un tuono d'estate quello che mi fece partire dietro l'uomo dall'accento straniero che leggeva per strada Camus. È stata forse solo colpa dellamore se vi ho perduto senza scordarvi mai tra i gratteciel de Manhattan et les fausses lumières de l'océan...». Maria Callas in sala aveva le lacrime agli occhi e, a fine concerto, abbracciandola le mostrò di aver registrato la serata con un transistor nascosto tra le pieghe del suo fourreau di cincillà. E Françoise Sagan fece di più.
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