Politica

Maestri, insegnate il valore dei nostri dialetti

Il mio primo giorno di scuola, in Brianza, fu - come scrisse Giovannino Guareschi - un po’ la perdita della libertà, e anche della mia identità. (Poi l’ho recuperata, spero). Invece di farci tracciare le aste, come mi fu detto avrebbero fatto, la maestra Sassi Tomasoni si mise a disegnare alla lavagna. Scrisse qualcosa che chiamò «i». E chiese indicando il disegno che cosa fosse quella cosa. Un triangolo, adesso direi un cono, che finiva a punta in una cannuccia. Chiamò me: «Farina Renato, vieni qui alla lavagna!». Io andai lì. «I come...», mi suggerì gentile dopo un attimo: «Si usa per versare il vino dalla damigiana alla bottiglia...». Ebbi l’illuminazione, ma non coincideva con la «i». Però trovai il coraggio: «Quello lì è il pedriolo». Lei, improvvisamente dura: «No, no. Tu stai parlando in dialetto. I come imbuto». Non l’avevo mai sentito nominare, anche se lo avevo usato tante volte. Allora la mia famiglia, la mia mamma, il nonno, la sciùra Marièta, la Carulina, mi avevano mentito. Non era il «pedriolo» tratto da «pedrioeu» (credo si scriva così), ma l’imbuto.
Dopo qualche giorno, arrivò una circolare. La maestra Sassi Tomasoni la lesse e scosse la testa amareggiata. Mi ricordo (la memoria ce l’ho forte e precisa sulle angherie della vita) che chiamò una collega e commentò ad alta voce: «Qui si dice che se la famiglia lo chiede gli alunni possono fare dei corsi di francese e inglese...». A me l’idea non dispiaceva. Il francese... Mio papà sosteneva che somigliava al nostro dialetto brianzolo, stessi suoni, parole simili come pom per dire mela. Articiot (o qualcosa di simile) per dire carciofo. Alzai la mano. «Non sai neanche l’italiano e vuoi imparare il francese?».
Il pomeriggio - era ottobre - andai nei campi con la Maria Bumbùna (traduzione: Maria Caramella. Dava le caramelle, cioè i bunbùn, che vuol dire etimologicamente i «buoni buoni», ai bambini). Si trattava di raccogliere ul furmentùn, il grano turco, non il formentone come dicevo io. Questo lo appresi il giorno dopo.
Da questi esempi si capisce come non sia affatto d’accordo con il mio amico Luigi Bacialli, e sia invece dalla parte di chi sostiene che è importante, importantissimo sapere che la lingua di nostra madre, dei nostri nonni, non era qualcosa di ostrogoto e barbaro, un passo indietro rispetto alla civiltà, ma qualcosa di piena dignità e valore. E il fatto che in Italia si sia affermato il Toscano, e che sia necessario impararlo come lingua franca, come insegnò il nostro Manzoni, a discapito della Koinè lombarda e padana (esiste, esiste, studiate asini), non è un buon motivo per non imparare qualcosa che abbiamo nelle ossa dell’anima, e nell’anima delle ossa.
La mia idea allora non è tanto che si parli il dialetto nei telegiornali, o che si facciano lezioni obbligatorie di dialetto o di lingua locale (molti hanno dignità di lingua, ma qui bisognerebbe fare altre disquisizioni. Io sostengo che la neo-koinè lombarda, pur nella diversità dei vari dialetti, sia compresa e parlata almeno rudimentalmente da sette milioni di persone, il doppio del norvegese). Ma che i maestri e i professori di italiano e di storia mostrino come il dialetto sia importante, e ci facciano delle lezioni e delle letture, e riferimenti storici, per mostrare la dignità bella e profumata delle nostre radici. Perché scandalizzarsi allora della proposta della Lega? Si può limare. Ma non è affatto una boutade estiva. In Italia nella scuola si fanno corsi di rumba e di samba, di cucina etnica, per dire le materie più nobili, perché almeno non ci infilano troppo marxismo. Inserire nei programmi, regione per regione, noccioli di insegnamento del «napoletano» o del «veneziano» non vedo perché dovrebbe renderci meno capaci di imparare l’inglese. Lo hanno provato gli studiosi del cervello: quando uno è bilingue da bambino (e dialetto e italiano, dal punto di vista del cervello sono due lingue) si impara più facilmente qualsiasi lingua straniera. A meno che una delle due lingue sia trattata come un difetto, come qualcosa da cancellare. E allora si resta quasi inibiti. È per questo che gli italiani fanno più fatica con gli idiomi esteri. Per questo, nonostante le nostre emigrazioni massicce e maggioritarie in molte regioni del mondo, a differenza degli spagnoli, dei portoghesi, dei francesi e degli inglesi non abbiamo Stati ufficialmente italianofoni. Al massimo in Brasile e Australia abbiamo enclave dove si parla il veneto e il trentino: ma anche lì, senza che nessuno li abbia difesi. Era solo dialetto, da parlare in casa... Con gli anni, con i decenni, la censura di un tempo è scaduta. E mi ritrovo a pensare in dialetto brianzolo e persino a parlarlo. Rimpiango di non aver imparato la traslitterazione consacrata dal Cherubini, che però si fermò al milanese. Mi piacerebbe sapere tutte queste cose, quali parole che ho in testa siano celtiche, quali latine, quali di provenienza germanica. Insegnarlo e dirlo ai miei figli e nipoti che male farebbe? Si ha forse paura che tolga qualcosa all’impero dell’inglese? Il romanesco televisivo in combutta con la scuola responsabile di un cattivo italiano hanno determinato quel che Pasolini, poeta friulano, chiamava genocidio culturale.

Be’, si può rimediare.

Commenti