Cultura e Spettacoli

MAFFESOLI «Le nuove tribù alla periferia della modernità»

Rien ne va plus. Per Michel Maffesoli, l’eretico, il creativo, il cattivo maestro della sociologia francese, che a La Sorbonne di Parigi occupa la cattedra che fu di Emile Durkheim, le categorie concettuali su cui per lungo tempo ha navigato la storia, gli stessi modelli teorici imposti da partiti e movimenti sociali, sono finiti. Anzi, individualismo, razionalismo, mito del progresso, le stesse ideologie, nel loro ampio spettro, a destra e a sinistra, sono morti. Aleggiano ancora attorno a noi, ovvio. Ma - spiega Maffesoli, ospite l’altro ieri dell’Istituto di Comunicazione dello IULM di Milano, diretto da Alberto Abruzzese - è «come vedere la luce che arriva da una stella che in realtà e già scomparsa».
Il suo lavoro di ricerca è da anni puntato sulla «crisi della ragione utilitaristica».
«Le società contemporanee non fanno più perno sull’individuo razionale, padrone di sé e del mondo, che inscrive i soggetti sociali in progetti a lungo termine, decisi in nome dell’ideologia e della ragione astratta. Poggiano su micro-aggregazioni in cui il sé si perde nell’altro, si scioglie nelle differenti tribù di cui fa parte, gioca nel presente, hic et nunc, la sua “ragione sensibile”. Altro che dover essere».
Tanti differenti tribalismi, dunque.
«I media, le reti, sono già diventati il palcoscenico dove si esibiscono gli elementi arcaici che la modernità ha marginalizzato. Il postmoderno si caratterizza e si cristallizza proprio nella sinergia tra lo sviluppo tecnologico e il ritorno di forme arcaiche. Nel XXI secolo la comunicazione diventa proprio l’elemento sacro attorno cui le comunità si fondono e vibrano insieme, diviene l’elemento strutturale dell’“essere insieme” postmoderno».
Ma ogni tribù ha il suo totem.
«Certo. Ci sono tribù religiose, musicali, sessuali, sportive, culturali, ecologiche e così via. Sono esse che occupano lo spazio pubblico. Rifiutare questa verità è puerile. È più saggio accompagnare questa mutazione. Invece si ha paura di questa pluralità di modi di essere che tendono sempre più ad esprimersi».
Paura o incapacità di capire?
«In realtà è una forma di pigrizia che potremmo pagare a caro prezzo. Ora c’è il vezzo, ampiamente diffuso sia a destra sia a sinistra, di vedere ovunque il “comunitarismo”. È una sciocchezza. C’è invece un’eterogeneità che si afferma empiricamente con forza. Basta vedere la teatralità delle nostre strade, cappellini, kefiah, djellaba, kippah, chador, e dei corpi, tatuaggi, piercing, criniere, ombelichi. Sono forme di vita che si colorano nel grigiume quotidiano, che si fondono più sull’affetto condiviso, sui sentimenti condivisi che sulla ragione universale. Che riaffermano differenze, localismi, specificità».
Anche violenze. Parlare di tribù significa anche esplorare la possibilità di conflitti, ribellioni. Come nelle banlieues, un anno fa.
«Per rassicurarci abbiamo detto che quelle ribellioni, quegli incendi, erano la manifestazione di una semplice miseria economico-sociale o la forma violenta assunta da una nuova religione. Sono invece la reazione contro un ordine rigido e mortifero».
Che cosa ha insegnato quella rivolta?
«È poco interessante spiegare i fatti enumerando, come fa la sociologia quantitativa, il livello d’istruzione e le condizioni famigliari della “feccia” ribelle, o addirittura focalizzarsi sulla marca delle auto bruciate. Le banlieues hanno rivelato una profonda evoluzione dei modi di stare insieme della nostra società, nel bene e nel male. Sarebbe irresponsabile vedervi solo miseria, senza prendere in considerazione le forme culturali che ci vengono proposte, che sono messe in evidenza. Sono loro, per certi versi, i messaggeri della postmodernità».
Un messaggio un po’ traumatico.
«È ovvio rimanere sotto shock di fronte ai roghi delle periferie, agli eccessi deliranti dei fanatismi, alle forme esplosive del terrorismo. Ovvio essere “rintronati” dopo aver coltivato l’ideale dell’asetticità della vita sociale, dell’“igienismo”, del tentativo di rendere sicura a oltranza l’esistenza sociale».
Vuol dire che è necessario far buon uso della violenza?
«La storia e la stessa mitologia ribadiscono la funzione fondatrice della violenza, la sua valenza fecondante. L’uomo è un essere istintivo che ha bisogno di eccessi e di effervescenza. In altre parole, l’esistenza individuale e sociale non si forma “superando” la “parte in ombra” dell’essere umano, che è una costante antropologica, ma integrandola, omeopatizzandola. Così ne evitiamo gli aspetti più nocivi».
Di fronte a questa prospettiva lei parla di intellighenzia squalificata, dequalificata.
«Penso soprattutto all’intellighenzia francese - universitaria, politica, intellettuale, giornalistica - che resta ancora legata agli archetipi interpretativi dell’800 e del ’900. Modelli assolutamente inadeguati di fronte a un certo ordine sociale che sta colando a picco. E siccome ora la verità non è più un bottino tutto loro, le élites sono in crisi».
È in crisi anche la democrazia?
«A mio avviso, anche se può sembrare un’affermazione forte, la democrazia è diventata un sistema vuoto. Credo che, strictu sensu, sia divenuta un’antifrasi: non denota più il potere del popolo ma il potere di “qualcuno”. Altra conferma dello sganciamento tra intellighenzia e la società che vive».
Quale evoluzione è possibile?
«Occorre tornare alla vera democrazia, nel senso etimologico del termine, al farsi carico della vita della città a partire dai suoi elementi più semplici, che danno vita alle tribù: consumi, casa, sport, arte ecc. Da tutto ciò che offre la possibilità di “far sentire insieme” ed “essere insieme” un determinato gruppo di persone».
Una democrazia della piazza?
«Una democrazia che torni a connettersi con le forme espressive e aggregative della piazza, nel senso che viene rivitalizzata e risocializzata reincorporando le dinamiche emergenti dal basso e dal quotidiano. Ma prescindendo dalle categorie attuali della politica».
Così è rivoluzionato lo stesso concetto di cultura.
«Per me la cultura è la sedimentazione di tante piccole realtà quotidiane, vestirsi, cucinare, divertirsi, giocare ecc., che non hanno più niente a che vedere con le grandi astrazioni, le grandi opere, messe in piedi dalla borghesia. Oggi è il popolo, la massa che fa cultura e che, non a caso, fa paura all’intellighenzia».
Allora il futuro potrebbe proporre il dominio di una tribù «popolare» sulle altre?
«Non credo a questa ipotesi. Vedo piuttosto una serie di aggiustamenti reciproci di queste tribù, l’una con l’altra, in una sorta di accomodamento, di intersecazione.

In modo che il conflitto sia permanente ma non catastrofico».

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