Cultura e Spettacoli

Magico, cinico, grottesco Purché sia Natale

Le missive di intellettuali più o meno impegnati (raccolte in un volume pubblicato da Piemme) farebbero perdere la pazienza anche a un santo

Magico, cinico, grottesco Purché sia Natale

Racconti di Natale, una bella scelta di prose sul tema natalizio proposta da Einaudi e introdotta da Nico Orengo, (pagg. 426, euro 15,80) pare un titolo autoreferenziale. Il Natale infatti è un evento che si svolge in forma di racconto, di fiaba: un bambino che nasce da una donna povera e semplice e da Dio, un padre putativo che fa il falegname, la nascita in una grotta, la più antica, nuda e magica dimora dell’uomo, o, secondo altre testimonianze, in una capanna, abitazione primitiva e quintessenziale. Culla del bambino una mangiatoia, non solo a segnare l’estrema assoluta povertà del figlio di Dio, ma anche un presagio del suo destino di cibo sacrificale: il Figlio infatti offrirà la propria vita terrena, nel sangue della Passione, per la salvezza dell’uomo. È un racconto perfetto, sia per chi vi crede pienamente sia per chi non lo consideri vero. E poi Cristo è un narratore di fatto, articola su favole la sua predicazione dell’Amore, l’interpretazione della natura umana, la promessa del Paradiso. Non ricorre al sillogismo ma alla parabole, e a volte supera la parabola stessa con la quintessenza di ogni fiaba, il prodigio: Cristo non dimostra argomentando, ma cammina sulle acque, moltiplica i pani e i pesci, tramuta l’acqua in vino. Racchiude in sé e manifesta l’essenza mitopoietica dell’uomo, la sua fame di sogno e fiaba, fatti veri, nella realtà.
Naturale quindi che il Natale ispiri racconti, essendo un evento intrinsecamente magico, segnato dallo stupore: nel presepe noi vediamo, oltre alla folla dei pastori e degli artigiani, un uomo lacero, goffo, sgraziato, che fissa in alto: è l’«Incantato della stella», un povero ignorante, un umile, che ben più di tutti ha colto la luce irresistibile di quella stella e il suo magico significato di rivelazione. Poco distanti tre eleganti signori con turbanti e damaschi, su lucenti cavalli e cammelli: i magi, depositari della più elevata sapienza mai conosciuta dell’umanità, hanno visto e interpretato la stella con la stessa certezza del povero ignorante, riconoscendovi l’emblema divino. Di fronte all’astro splendente su quella caverna, sulla mangiatoria scaldata dal fiato dell’asino e del bue, il culmine della sapienza e la più umile semplicità si fondono perfettamente, lo sguardo del sapiente supremo e dell’uomo rozzo e analfabeta coincidono nella visione: questo è già uno straordinario racconto.
Tra le tante opere ispirate dal Natale una è divenuta un mito, uno dei libri fondamentali, accanto a quelli di Omero, di Shakespeare, alla Commedia di Dante e a Don Chisciotte, a Moby Dick, all’Isola del Tesoro e ai Tre moschettieri: è il famoso Racconto di Natale di Charles Dickens. La storia dell’avaro e misantropo Scrooge, che la notte della vigilia, in una Londra nebbiosa e onirica, viene visitato da quattro fantasmi, rivive la propria esistenza e si risveglia rigenerato nello spirito del Natale, divenne subito leggendaria, generando molteplici riprese e versioni, tra cui il magnifico cartone animato di Walt Disney. Logico escludere questo capolavoro, peraltro anche troppo lungo per un’antologia, ma Dickens avrebbe dovuto comunque essere presente con qualche altra sua narrazione natalizia, in un libro del genere. Perché Dickens rifonda il mito letterario del Natale, portandolo dalla tradizione popolare dei Carols inglesi alla grande letteratura, e in ciò ripristinando una tradizione che aveva espresso centinaia di capolavori pittorici, in Italia e non solo, dal Trecento al Barocco.
Detto questo, il libro è comunque ricco e ben articolato, spazia dai natali incantati, magici, a feste intimistiche, grottesche, spesso tristi. Tra i natali del primo genere, che preferisco, quello elettrizzante di Dylan Thomas nel Galles della sua infanzia, dove ogni piccolo evento è un prodigio, sentiamo il rumore della neve calpestata e il soffio di quella che danza in cielo, e una stregante atmosfera di attesa incanta il paesaggio e la casa. Un altro Natale nel sogno della neve, destinato però a rimanere tale: nella sua prosa magistrale Truman Capote rievoca una vacanza natalizia da bambino, invitato a New Orleans da un padre che di fatto non conosceva. Il piccolo ma già sveglio Truman, strappato controvoglia alla numerosa famiglia materna dell’Alabama dove si trovava bene, parte sognando di trovare, nella grande città, quella neve che conosce solo dalle fiabe narrategli dall’anziana cugina e dai libri. La scoperta che a New Orleans non s’è mai visto un fiocco di neve segnerà lo smacco presagito, imprimerà un’ombra di mestizia su quello strano Natale.
Il Natale nello spazio siderale di Ray Bradbury, quello femminile e domestico di Louis May Alcott, quello paradossale di O. Henry, quelli ambigui di Fitzgerald, Stevenson, Cechov, dipingono una vasta gamma di percezioni della festa, mentre quello di Buzzati rievoca il famoso mito di Scrooge, in una New York metafisica e algida. Ma forse il momento più inscritto nella magia natalizia, accanto all’incantato Galles del «Cigno di Swansea», è la storia dei magi, nei racconti di Jacopo da Varazze e di Giovanni da Hildesheim: la loro visita, come sappiamo, non è provata storicamente, in un solo vangelo compare uno di loro, ma immediatamente la leggenda si diffonde, nutrendo la nascita del bambino di un seguito favoloso, misterico, un lungo viaggio dal lontano Oriente, dove sorgono il sole e le civiltà. E, nel racconto di Jacopo, risuonano le parole di Agostino, a sigillare il senso profondo di quel viaggio e quella visita: «O infanzia a cui gli astri sono sottomessi! Quanto è grande, quanto è immensa la sua gloria, se gli angeli vegliano sui suoi pannicelli, se le stelle lo seguono, se i re tremano al suo cospetto, e se i sapienti si inginocchiano davanti a lui!».
Questa scena, la stessa descritta da Agostino, ispirò capolavori pittorici per secoli, e una delle più grandi poesie del Novecento, Viaggio dei magi di T.S. Eliot, che concludeva dando voce a uno dei tre: «Non ho assistito a una nascita ma a una morte». Perché un mondo finiva e ne nasceva uno nuovo, un altro. Eliot, erede dei Magi, aveva compreso da iniziato la natura di quell’evento.

Come il pover’uomo sporco e goffo che nel presepe fissa, incantato, la stella.

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