Le analogie con il caso Puglia (però Emiliano uscì indenne)

Fu assolto in primo grado per aver ricevuto 65mila euro per le Primarie Pd 2017 da imprenditori sponsor: "Non sapeva"

Le analogie con il caso Puglia (però Emiliano uscì indenne)
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«C’è chi può (non sapere) e chi non può. Io può». La massima (parafrasata) del compianto presidente del Catania Angelo Massimino è perfetta per descrivere il doppiopesismo giudiziario su un presunto finanziamento illecito a un governatore di Regione. Per un Giovanni Toti ai domiciliari per 74mila euro contabilizzati c’è stato un altro governatore che poteva non sapeva di aver avuto una parte della campagna elettorale pagata in nero. Esattamente un anno fa a Torino Emiliano è stato assolto in primo grado dall’accusa di finanziamento illecito «per non aver commesso il fatto», mentre è stato condannato il suo braccio destro Claudio Stefanazzi, deputato Pd e suo ex capo di gabinetto, assieme all’imprenditore Vito Ladisa. A loro due la giudice Alessandra Salvadori ha dato 4 mesi e 20mila euro di multa. Il pm Giovanni Caspani aveva chiesto di condannare Emiliano e il parlamentare a 1 anno e 90mila euro di multa. Per i due imprenditori considerati i «datori» del finanziamento illecito, Giacomo Mescia e Vito Ladisa, la procura aveva chiesto 8 mesi di reclusione più multe rispettivamente da 30mila e 60mila euro. Come Emiliano, anche Mescia è stato assolto. In teoria il reato di Stefanazzi è già prescritto, anche se legittimamente l’ex capo di gabinetto reclama la sua innocenza ed è convinto che alla fine sarà assolto.

Tutto ruotava intorno a due fatture per complessivi 65mila euro pagate alla Eggers di Pietro Dotti, la società di comunicazione incaricata di curare la corsa di Emiliano alle primarie del Pd contro Matteo Renzi nel 2017, vinte dall’ex premier con il 69,17% dei voti. Le carte dicono che il debito venne pagato in due tranche da Ladisa e dall’altro imprenditore Giacomo Mescia, anch’egli assolto. I due avevano già contribuito a sponsorizzare la carriera politica di Emiliano. Eppure quelle fatture, secondo la tesi della Procura naufragata in aula, erano un finanziamento occulto perché fatturate con altre motivazioni, vale a dire presunti servizi erogati alla Margherita srl e alla Ladisa ristorazione srl, non alla campagna del governatore. Secondo il pm, fu Stefanazzi a dire a Dotti di farlo.

Emiliano se l’è vista brutta ma tutto sommato gli è andata bene. Non è stato mai interrogato dai pm, si è difeso in aula e ha convinto i giudici che non ne sapeva nulla. Niente arresti, niente perquisizioni, niente di niente. Siccome Dotti batteva cassa, Emiliano disse in aula di aver ordinato ai suoi: «Se avete i soldi pagate, se non li avete ve li do io e mettiamo a tacere questa cosa». Così fu. Dotti gli disse «tutto a posto» e lui non fece Michele Emiliano (Pd), 64 anni, è dal 2015 governatore della Puglia altre domande. Perché farle, in effetti? Il pm aveva definito questa modalità il classico finanziamento occulto alla politica, i legali del governatore convinsero la corte con questa ipotesi: «Non è vero che il governatore deteneva un ruolo di indirizzo politico - disse l’avvocato Gaetano Sassanelli Emiliano non era nemmeno più iscritto al Pd, dopo esserne stato segretario regionale fino al 21 maggio 2016». Quindi, correva per guidare un partito senza esserne iscritto ma non faceva politica.

E i giudici gli hanno dato ragione, buon per lui, ripagandolo con l’assoluzione di una tempesta di calunnie che gli era piovuta addosso. L’avvocato di Emiliano aveva denunciato «il retrogusto di un utilizzo della giustizia penale». Come dargli torto.

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