Magistratura

Il nodo irrisolto delle carriere separate. Ecco perché si può dire sì alla riforma

La formulazione non espone al rischio che il pm sia sottoposto al potere politico

Il nodo irrisolto delle carriere separate. Ecco perché si può dire sì alla riforma

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A distanza di un anno si iniziano a tracciare i primi bilanci in merito alle politiche sulla giustizia del governo Meloni. Tra queste, un posto a parte merita l'annosa discussione sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, storica battaglia delle camere penali dell'avvocatura (ad eccezione del prof. Coppi che dalle colonne del Fatto Quotidiano si è dichiarato contrario a tale soluzione) e oggi sostenuta dal ministro Nordio nonostante la forte avversione della magistratura associata.

Per dare ulteriore rilancio al no alla separazione delle carriere, il Corriere della Sera nelle settimane scorse ha rilanciato una operazione nostalgia pubblicando in prima pagina un appello firmato da circa 500 magistrati in pensione definendoli come appartenenti alla generazione Nordio. «Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l'annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri» è l'incipit dell'appello nel quale il vero timore è il controllo politico sull'azione del pubblico ministero ed il conseguente assoggettamento al potere esecutivo.

Tale timore, che costituisce l'argomento principe per esprimere la contrarietà alla separazione delle carriere, è però clamorosamente smentito dalle proposte di legge in discussione che hanno scelto e blindato nel nuovo art 104 della Costituzione il modello portoghese caratterizzato da carriere separate e da un pubblico ministero indipendente, come sottolineato dalle colonne del Riformista da Giandomenico Caiazza, Presidente delle camere penali.

Nella mia trascorsa veste di magistrato e di Presidente dell'Anm ho, più volte, espresso la ferma contrarietà alla separazione delle carriere privilegiando l'idea che pubblico ministero e giudice dovessero avere la stessa formazione e cultura della giurisdizione.

Ma cambiare idea si può considerando che:

  • quanto alla osmosi tra le funzioni, le carriere tra pubblico ministero e giudice sono già separate nei fatti perché i passaggi da una funzione all'altra sono sempre più rari complice la progressione in carriera che impone una spiccata specializzazione delle funzioni stesse (tradotto, come emerge dai dati statistici del Csm, un giudice non diventerà mai Procuratore della Repubblica di un importante ufficio giudiziario);
  • quanto alla cultura della giurisdizione, sono sempre più rari i casi in cui il pubblico ministero sia portato a cercare prove favorevoli all'imputato. Ciò soprattutto quando nello svolgimento delle indagini preliminari, all'accertamento della verità si sovrappone un appiattimento del pubblico ministero sulle informative della polizia giudiziaria sovente trasfuse, nella loro totalità, dapprima nelle richieste di misura cautelare, poi nelle ordinanze cautelari emesse dai giudici per le indagini preliminari e da ultimo nelle sentenze emesse dei giudici, compresi quelli della impugnazione;
  • quanto al fatto che il nostro modello ordinamentale a carriera unica è un modello invidiatoci dagli altri Stati, è un argomento vero ma non sufficiente. Infatti, la separazione delle carriere è tipica dei sistemi caratterizzati da un processo accusatorio come avviene ad esempio in Portogallo, Spagna, Germania, Svezia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, India.

In conclusione, anziché lanciare il ballon d'essai del controllo politico sull'azione del pubblico ministero, ciò di cui il Paese ha bisogno è di realizzare compiutamente le condizioni necessarie a garantire la terzietà ed imparzialità di chi è chiamato a giudicare ridisegnando il ruolo dell'accusa e così riportarla su un piano di parità rispetto a quella della difesa.

Tutto questo, sarebbe decisamente più coerente con il dettato costituzionale che proprio questi principi richiama nell'art.

111 della nostra Costituzione.

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