Che Cesare Battisti, il pluriomicida graziato da una scuola di samba di San Paolo fosse dotato di formidabile faccia da schiaffi era noto. Che se la tirasse da eroe proletario, nonchè da finissimo intellettuale perseguitato come un Silvio Pellico e braccato come un Gioacchino Murat, era noto altrettanto. Quella che si ignorava, fino a questo momento, era la melliflua, insultante tracotanza di un pluriomicida che ora, dopo aver ottenuto la libertà agognata dalla sunnominata scuola di samba (che pensa davvero di essere un Tribunale) invoca i tarallucci e il vino di un colpo di spugna che cancelli i quattro morti ammazzati che ha sulla coscienza; gli anni di latitanza e gli sberleffi indirizzati prima dalla Francia e poi dal Brasile ai familiari delle sue vittime e ai suoi giudici naturali che lo hanno condannato allergastolo.
Dice dunque lo smargiasso ex militante dei Proletari armati per il Comunismo: «Speriamo di poter voltare la pagina degli anni Sessanta e che tutto possa essere risolto in altro modo, senza vendette tardive». Non giustizia, dunque, quella italiana, secondo lo spudorato Battisti; ma vendetta, e per soprammercato «tardiva», consumata fredda, per così dire. Come se quattro morti ammazzati, essendo passato un bel po di tempo dagli anni di piombo, potessero finire in cavalleria, nel solaio dei ricordi: loro, e limmenso bagaglio di dolore, di afflizione, di sconquasso patito dai Torregiani e dai familiari di Lino Sabbadin, Antonio Santoro e Andrea Campagna, gli altri italiani ammazzati dalla faina in fuga col ciuffo sugli occhi da evaso che ora se la tira -lui!- da povera vittima.
«Ardito banditore delle popolari verità italiane, alzerò il grido della nostra guerra dindipendenza e più fortemente il grido della concordia». Ecco: tolta la fuffa del romanticismo, nellinvocazione di Cesare Battisti sembra di risentire leco declamatorio di un Santorre di Santarosa, per restare alliperbole risorgimentale. Un puro di cuore, il conte di Pomerolo, contro un miserabile topo in fuga, per il resto. Altro che concordia.
Erano ancora sulla porta del carcere brasiliano, il ciuffo di Battisti e il suo sguardo spiritato da sorcio in libertà, quando nella notte fra mercoledì e giovedì scorso ciuffo e sguardo si sono imbattuti nella biro e nel taccuino di un glorioso cronista di Causa Operària, quotidiano del «verdadeiro partido dos trabalhadores». Che naturalmente è «independente, de luta, e socialista». Ah, che bello ritrovarsi fra vecchi amici, tra gente fidata, tra giornalisti veri e non i soliti sgherri del potere borghese, prezzolati servi del padrone. Con il cronista amico, ecco dunque Battisti lasciarsi andare a questaltra decisiva dichiarazione: «Ho bisogno di fermarmi un paio di giorni per riscattare la mia vita e cercare di mettere le cose a posto»; e tutto questo mentre significava allamico cronista la sua letizia per essere «alla fine di tanti anni di fughe». E però non si capisce se questa sia la sintesi un po arruffata del cronista «di lotta» o se davvero Battisti abbia inteso dire che ha bisogno di 48 ore per «riscattare la sua vita e mettere le cose a posto». Perché se questo è il caso, bisognerebbe che qualcuno gli spiegasse che non basteranno due giorni per fare tabula rasa del suo passato da killer, e che i fantasmi di quattro poveri cristi ammazzati a sangue freddo sono sempre lì a chiedere giustizia.
Aggiunge un altro giornale comunista brasiliano, il Correio Operario, che Battisti ha «evitato di parlare con la stampa borghese che in questi quattro anni ha mentito sulla sua vita e militanza».
Ecco. Fin qui la cronaca. Da aggiungere cè solo un commento di Massimo DAlema, nella sua veste di presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza. «Sul caso Battisti -dice DAlema- è stato compiuto un errore molto grave dalle autorità brasiliane.
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