Mai mangiata la terra? Ora si può

Paolo Marchi

nostro inviato a Girona

Ci sono piatti che traggono il loro nome dagli ingredienti principali, Spaghetti alle vongole, Torta di mele, Filetto al pepe verde, altri che sono un omaggio a chi l’inventò, ad esempio la Tarte Tatin, piuttosto che a un personaggio famoso, la Pesca Melba di Escoffier o il Carpaccio di Cipriani, o a una città come il Risotto alla vogherese ovvero ai peperoni, vanto di Voghera, e ancora quelli che evocano immagini che per similitudine dovrebbero far pensare all’essenza della ricetta stessa, in tal senso una pasta all’arrabbiata è sinonimo di peperoncino, un risotto giallo è tale per la presenza dello zafferano mentre paglia e fieno altro non è che pasta all’uovo di due colori, gialla all’uovo, verde per l’aggiunta di spinaci. In Toscana poi vanno matti per i parenti, vedi la torta della nonna che fa pensare ai bei tempi di quando uno era bambino e in teoria aveva la nonna in casa che non faceva altro che sfornare crostate alla crema.
La nouvelle cuisine poi ha liberato in tutti i sensi la fantasia dei cuochi, con i famigerati Filettini di sogliolette dell’Adriatico su lettino di insalata di primavera con dadolata di pomodoro e trito di olive nere taggiasche, nome inventato seduta stante ma che fotografa un andazzo duro a morire, o, citazione reale di Paolo Conte, il suo «pesce veloce del Baltico con tortino di mais, poi ti servono polenta e baccalà». È un po’ quello che ha acutamente fatto Gualtiero Marchesi quando spacciò per raviolo una lasagna, sfalsando i fazzoletti di pasta tra loro ribattezzandoli Raviolo aperto, cosa che se a una casalinga emiliana fai i complimenti perché il suo raviolo è venuto bell’aperto, ti colpisce in testa con il mattarello.
Tutto questo perché in Spagna c’è chi sta servendo in senso assolutamente letterale una delle preparazioni più classiche e normali della cucina quotidiana, un piatto «terra e mare» che è un inno alla regione in cui vive, la provincia di Girona, coste, pianure, colline e montagne, ma anche alla creatività, quella scintilla che distingue il pantofolaio dal genio creativo, il copiatore che è lì che aspetta che le invenzioni di altri diventino quotidianità per proporle a sua volta sotto forma di tradizione.
Il tutto al Celler de Can Roca in contrada Taialà, telefono (+34) 972.222157, www.elcellerdecanroca.com, dove in quella che diciannove anni fa era la cantina della trattoria (tuttora esistente) dei signori Roca, i loro figli Joan, Josef e Jordi, oggi poco più di un secolo in tre, hanno ricavato uno dei primissimi locali al mondo. Joan, il primogenito, cura il salato, Josef sala e cantina, Jordi i dessert. La loro sintonia è totale e allora non bisogna stupirsi se un piatto nasce anche dal desiderio del sommelier di ricreare sotto forma di gelati profumi tipici di altri prodotti, come i sigari Avana, o addirittura dei profumi tipo l’Eternity di Calvin Klein.
Ora sono andati più avanti e con l’Ostra con destilado de tierra, l’ostrica con distillato di terra, siamo ai livelli del fumo, l’idea del big bang fatta pietanza da Ferran Adrià al Bulli a Cala Montjoi, distante una sessantina di chilometri. In un piatto di vetro trasparente (materiale che peraltro non gradisco perché mortifica colori e forme di quanto vi viene deposto sopra) ritrovi un’ostrica ricoperta da una gelatina pressoché trasparente. La novità risalta alla prova palato: terra, gusto di argilla mista a muschio. Chi ha avuto la fortuna di calpestare, camminare, correre in boschi svedesi si sente come trasportato tremila chilometri a nord.
Ha detto con sorriso sornione Joan Roca: «Ho voluto creare l’abbinamento mare e montagna che più di qualsiasi altro si identificasse con quello che pensiamo sia il mare e la terra. Per il mare, dopo diversi esperimenti, sono rimasto con le lumache e le ostriche. Alla fine ho scelto queste ultime perché presentano una più elegante nota iodata. E la terra? È argilla, ma posso distillare qualsiasi cosa con quella macchina lì». E con la mano eccolo indicare un distillatore che ha ben poco degli alambicchi in rame di una volta, quelli per chi tenta di farsi la grappa in casa. «Ho distillato pure il granito e il calcare, solo che l’argilla sa di terra umida, in me, sposata al muschio e al sottobosco evoca sentimenti forti come la nostalgia e la malinconia».
E non si pensi affatto a stupidi effetti speciali. I Roca sono di una serietà estrema. Sempre Joan: «Sono partito da un imperativo: rompere una barriera netta, offrendo da mangiare qualcosa che non si è mai mangiato e con la terra credo di esservi riuscito. La prima fase è una macerazione a freddo, a 4 gradi per alcuni giorni, poi passo il tutto nel distillatore dove la distillazione avviene a una temperatura tra i 35 e i 40 gradi. Il mio obiettivo? Proporre degli stati d’animo. Se la terra è nostalgia, con il limone suscito allegria e con il giardino mediterraneo (è un dolce gelato alla lavanda, ndr) serenità e solarità».
Un breve viaggio catalano per un aggiornamento, per le Olive di olio o le Mozzarelle con basilico di Ferran e Albert Adrià, per le sardine e il filetto che Jordi Herrera al Manairò di Barcellona, (+34) 932.310057, www.manairo.com, cuoce con una fiamma ossidrica portatile, giusto una bomboletta che dà un tocco di affumicato più secco rispetto all’affumicato, dolce e morbido da ricordare l’incenso, con cui i Roca avvolgono la ventresca di tonno piuttosto che i moscardini.

Ma la terra distillata è oltre, è l’uomo che torna idealmente allo stato primordiale, che accantona similitudini come in America il Surf & Turf, coda di aragosta e filetto mignon, un mare e terra che vale i nostri sughi di pesce e funghi. A quanto il vuoto siderale?

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