MALINCONIA Il peso della vita

Dal mondo antico al Ventesimo secolo: al Grand Palais di Parigi oltre 200 opere «al nero»

MALINCONIA Il peso della vita

nostro inviato a Parigi
Ci sono immagini che riassumono una vita. Nell’estate del 1979 come copertina di una rivista, Elementi, che facevo con un gruppo di amici, venne scelta una incisione di Albrecht Dürer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. Non ricordo quale motivazione ci fosse alla base, né se si trattasse di una decisione unanime, o a maggioranza, o di un piccolo, personale, atto d’imperio visto che ero io il direttore responsabile... E tuttavia la nebbia che circonda la memoria di quell’atto è probabile che avvolga la più semplice delle realtà: piaceva a tutti, ci sembrava logica e naturale, in qualche maniera corrispondeva alle psicologie, pur diversissime, riunite intorno a quell’avventura editoriale. Eravamo tutti sotto i trent’anni, eravamo tutti degli emarginati, sognavamo tutti il grande evento che ci avrebbe rimessi in gioco, ma senza illusioni. Nell’editoriale del primo numero, cito a memoria ma non credo di sbagliarmi, la chiusa era affidata a una frase di Guglielmo il Taciturno che recitava così: «Non occorre riuscire per perseverare né sperare per intraprendere». Mi sembrava, ci sembrava, la sintesi perfetta dell’immagine düreriana: un cavaliere fiero ed emaciato, triste e solitario che avanzava in un mondo di rovine avendo per indesiderabili compagni due elementi impresentabili...
Un quarto di secolo dopo, il Cavaliere di Dürer fa bella mostra di sé qui al Grand Palais in una rassegna dal titolo sontuoso e emblematico di «Mélancolie. Génie et folie en Occident» (fino al 16 gennaio), più di duecento opere esposte, una cavalcata dal mondo antico al secolo Ventesimo avente per soggetto quel sentimento nero e austero cui si dà appunto il nome di malinconia, qualcosa di più e di diverso dalla semplice tristezza, qualcosa di distante eppure non di diverso dalla semplice felicità, una visione della vita più che uno stato d’animo...
Ideata e organizzata dal critico Jean Clair, la mostra ha avuto una gestazione lunga dieci anni. Luogo d’incontro privilegiato fra filosofia, medicina e storia delle forme, dalla pittura alla scultura, dalla oggettistica alla scrittura, il tema sembrava urtare la sensibilità di chi alle soglie di un nuovo millennio vedeva l’alba trionfante dell’energia economica e politica, la fine delle ideologie, l’affermarsi della società globale. Poi è successo quello che è successo e d’improvviso siamo divenuti tutti meno ottimisti. E più malinconici...
Gli anni in cui mettemmo Dürer in copertina furono anche gli anni in cui su quelle stesse pagine privilegiammo con riproduzioni e articoli il Böklin dell’Isola dei morti e il Friedrich del Viandante sul mare di nebbia, le piazze e le muse metafisiche di de Chirico, nonché il Baudelaire dandy, aristocratico e malato di spleen, tutti nomi che la grande esposizione parigina mette in primo piano, emblemi perfetti di quella malinconia come condizione spirituale a cui nel Novecento André Malraux darà la più brillante e la più spiazzante delle definizioni politologiche allorché nell’Espoir fa dire a uno dei protagonisti: «Un homme actif et pessimiste à la foi c’est ou ce sera un fasciste»...
In un saggio uscito una decina d’anni fa in Francia, Jean Paul Enthoven riunì sotto il titolo di Les enfants de Saturne scrittori diversi fra loro eppure simili: Hemingway e Fitzgerald, Drieu e Romain Gary, Stendhal e Chamfort... Nel mondo antico la malinconia aveva una corrispondenza fisica, la bile nera della ripartizione ippocratica degli umori, e una astronomica, il pianeta Saturno, il più lontano e il più cupo. Il Medio Evo fonderà i due concetti sino a fare dei figli di Saturno tutti gli esclusi dalla società, i segnati nel fisico e nella mente. In La philosophie occulte ou la magie, un testo rinascimentale di Henri-Corneille Agrippa de Nettleseim, l’umore malinconico viene visto così imperioso da far sì che «l’anima, avendo rotto ogni briglia e legame della mente e del corpo, venga tutta trasportata in immaginazione, divenendo così la dimora dei daimon inferiori, dai quali spesso apprende le arti manuali in modo meraviglioso». Ma Saturno era anche il nome latino di Kronos, il dio greco del Tempo che banchettò con le carni dei propri figli, quel tempo che per Chateaubriand, enfant di Saturno per eccellenza, era una sorta di conte Ugolino che, assiso sulle nostre spalle, ci divorava il cranio, l’ossessivo mormorio dell’orologio baudelariano, dispotico perché «l’Arte è lunga, il Tempo breve», l’usura insidiosa della vitalità e dell’entusiasmo che farà di Francis Scott Fitzgerald un uomo finito a 39 anni: «Mi rendevo conto che ogni atto della vita, lavarmi i denti al mattino, avere degli amici a cena la sera, mi costava uno sforzo. Non amavo più né le persone né le cose, ma macchinalmente continuavo a far finta di amarle». È quella idea che il futuro sia ormai nel tuo passato che porta Ernest Hemingway a spararsi un colpo di fucile in fronte a sessant’anni: il piacere della scrittura se n’è andato, e con esso è scomparsa anche la magia dell’esistenza, ti è rimasto solo il dolore di chi non riesce a scrivere più, a vivere più...
Il malinconico Proust consacra se stesso alla ricerca del tempo perduto, il nevrotico Sartre sceglie come titolo del suo primo libro Melancholia: sarà Gallimard a imporgli La nausée, e in questo caso l’editore ha la vista più lunga dello scrittore. A Sartre il mondo fa orrore e tutta la sua vita e la sua filosofia non sono altro che una maschera ad hoc per farselo piacere: l’impegno, la militanza, la fratellanza, la sua stessa apparente giovialità sono dimensioni acquisite e conquistate, sforzi per venire a patti, venire a capo di tutto ciò che l’ha sempre respinto, con cui non è mai stato a proprio agio: il suo fisico, l’ambiente intellettuale, le convenzioni borghesi, il mestiere di scrittore... Sartre ha orrore della solitudine, perché ha orrore della vita, laddove i figli di Saturno amano la prima e accettano senza illusioni la seconda. Byron fa dire di se stesso da un’amica: «Siete il più malinconico fra gli uomini e spesso, quando vi si vede, il più allegro».
Ciò che per lo pseudo Aristotele del III secolo a.C. era sintomo di grandezza: «per quale ragione tutti gli uomini d’eccezione nella filosofia, nella poesia e nelle arti, nella conduzione dello Stato, sono manifestamente malinconici?», diviene in età cristiana un peccato, l’accidia, da cui guardarsi, contro cui prendere provvedimenti. «La malinconia prepara il bagno del Diavolo» sentenzia Lutero e l’abbinata fra il Signore delle Tenebre e lo spirito malinconico attraversa il nuovo mondo a passo di carica. Bisogna aspettare l’umanesimo rinascimentale perché genio e malinconia riappaiano. Marsilio Ficino dà loro dignità filosofica, la Melencolia I di Dürer ne fa un paradigma della creazione: la ispira ma ha come prezzo l’inquietudine. Compassi, poliedri, oggetti geometrici e architettonici raccontano il travaglio del sapiente e dell’artista; comete, arcobaleni, animali fantastici testimoniano la difficoltà di conciliare quello stato d’animo con il mondo.
Man mano che l’età rinascimentale esalta l’uomo signore delle cose, manipolatore della natura, strumenti scientifici, reperti fossili, amuleti, animali impagliati, scheletri in avorio, in osso, in legno, cominciano ad affollare le vetrinette dei sapienti, pittori, scrittori, astronomi: dietro lo splendore della mente lo spirito malinconico avverte il campo dell’inconoscibile e dell’ignoto, sente l’insensibilità del tempo, l’inanità degli sforzi. Nel giro di un secolo quello che era considerato un sentimento viene derubricato e/o elevato a malattia: L’anatomia della melanconia è il saggio che il religioso Robert Burton pubblica in Inghilterra nel 1621: la società recupera ciò che la religione aveva sanzionato secoli prima, ma lo fa laicamente: non ci sono più il Maligno, la tentazione, gli influssi dei pianeti, è il corpo che non va, la mente che vacilla. Il malinconico non è un uomo di genio, è un uomo diminuito, un pazzo nei casi estremi, nella norma un poveraccio.
Il Settecento continua a perfezionare la diagnosi e la terapia. L’Età dei Lumi non tollera credenze e superstizioni e, si sa, è il sonno della ragione a generare mostri: il «capriccio» di Goya illustra il tema da par suo, ospizi e asili psichiatrici si aprono per accogliere i malinconici a cui la mancanza di ragione ha per forza di cose tolto il senno... Solo la «dolce malinconia» ha qualche diritto di cittadinanza: è un termine coniato dall’enciclopedista Diderot e ha a che fare con una stanchezza fisica e intellettuale per la quale l’unico rimedio, o meglio, consolazione, è la natura, ovvero le vestigia del passato, boschi e rovine: insomma, luoghi di cura a cielo aperto.
L’Otto e il Novecento sono storia d’oggi. La Rivoluzione francese dimostra che anche la ragione ha le sue follie che solo la ragione conosce, e le pratica a occhi ben aperti, il sentimento della natura si fa sempre più visione del mondo via via che l’industrializzazione e la civiltà delle macchine affermano il loro potere. Un termine medico inglese, spleen, cioè la milza, perde la sua connotazione anatomica e diviene la rappresentazione del mal di vivere: nei Fiori del male Baudelaire lo eleva a poetica, è l’umore nero, l’incapacità di stare a lungo nello stesso posto, i sussulti di energia e la spossatezza che ne segue, l’essere scontento e il non saperne il perché. Un secolo si chiude con l’annuncio nicciano della morte di Dio e quindi la solitudine del genere umano, la sua volontà creatrice che non sa più perché né su cosa applicarsi, un altro si apre con il tentativo di mettere le grandi utopie sociali e politiche al posto di quel Tutto che non esiste più. L’artista malinconico si trova stretto fra la psicanalisi che gli rinfaccia la sua pulsione per la morte e i totalitarismi che gli rinfacciano il suo individualismo. La Malinconia di de Chirico è un gigantesco sarcofago in una piazza vuota dove gli dei non abitano più, la Malinconia di Sironi è un paesaggio con rovine dove una figura femminile antica resta in attesa di una nuova civiltà. Quando questa arriverà avrà le sembianze del Big Man di Ron Mueck, vetro e polistirolo impastati per fare un corpo vecchio, nudo, grasso e laido, immerso nel vuoto del mondo.

Il suo mezzo di locomozione è la Malinconia di Anselm Kiefer: un bombardiere tedesco in piombo che non può volare sulle cui ali incombe il poliedro di vetro caro a Dürer.
Il cerchio si chiude. E la malinconia non è più quella di un tempo.

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