Paolo Stefanato
da Milano
Più che alla chimica, nella quale rivestì un ruolo di primissimo piano, il nome di Lorenzo Necci resta legato alle ferrovie. Del 1990, a pochi mesi dal suo insediamento come commissario straordinario, il suo annuncio: faremo lAlta velocità, una grande T che metterà in comunicazione Torino e Venezia, Milano e Napoli. Pronosticò anche i tempi: dieci anni per completare tutti i lavori. «Allinizio del nuovo Millennio i treni veloci saranno una realtà». Stiamo ancora aspettando. Ma ebbe la capacità di mettere in moto un progetto epocale, che doveva (già allora) ridare slancio alla sfibrata competitività italiana. Fece il suo discorso alla sala reale della stazione di Firenze, loccasione era il primo viaggio inaugurale dellEtr 500 (quello disegnato da Pininfarina e costruito dalla Breda, che oggi svolge il servizio Eurostar), allora costruito in due esemplari sperimentali commissionati dalla precedente gestione Ligato, finita tragicamente. In carrozza con due ministri ebbe lardire di provocare lindustria italiana affermando serafico, nel gelo di tutti: «Non è detto che compreremo questo treno». Lindustria francese (lAlsthom del Tgv) e quella tedesca (la Siemens dellIce) premevano per ottenere commesse in Europa e nel mondo. Necci era molto propenso a una visione internazionale, e sentiva forte il richiamo della cultura e della grandeur francese. Lanciò la sfida.
Figlio di un ferroviere, studi di Diritto amministrativo, avvocato, una lunga militanza repubblicana, Necci ha percorso la sua carriera ai vertici di aziende di Stato, prima lEnichem, confluita nellavventura abortita dellEnimont, poi alle Ferrovie. In entrambi i casi visse un paradosso: egli, uomo pubblico, teorizzava le privatizzazioni e il ruolo dei privati nellindustria di Stato, ma le sue aziende furono risucchiate nellorbita pubblica. Con Enichem propugnò il grande polo nazionale insieme alla Montedison; ma le intemperanze di Gardini e le liti di potere riportarono tutta la chimica italiana, anche quella privata, nel portafoglio dello Stato. Con le Ferrovie «inventò» la Tav, la società per lAlta velocità, nella quale teorizzò il «project financing» e il ruolo determinante dei privati. Ma lingegnoso castello ben presto crollò, mostrando la sua debolezza cartacea: e la Tav, che già contava soci finanziari internazionali, fu riassorbita da «mamma Fs».
In tutti i suoi ruoli, Necci si espresse come un uomo di strategie e di grandi visioni; sognatore come devesserlo il capo di una grande azienda, stratega come è richiesto a un politico. Due, tre volte (con Amato, con Dini) mancò dun soffio la poltrona di ministro, almeno una (nel governo Berlusconi) quella di sottosegretario. Avrebbe espresso quello che gli era più congeniale: grandi disegni. Se cera qualcosa su cui si perdeva, era la gestione delle cose, quasi lo annoiasse. Come un grande architetto che lascia ad altri linterpretazione dei suoi schizzi, per passare a un nuovo orizzonte dimmaginazione. Questa urgenza, di interpretare e di contribuire ai grandi sistemi, lo portò a scrivere una serie di libri tesi soprattutto a capire il mondo che viveva. Compreso un piccolo testo «intimo», un racconto personale del suo inferno giudiziario.
Perché Necci, indenne nella vicenda Enimont e nella prima fase di Tangentopoli, fu risucchiato nella spirale giudiziaria nel 1996 e finì in carcere. Si vantava di essere stato assolto 42 volte, ma nel suo casellario giudiziale figurava anche una condanna definitiva per corruzione nel processo per le tangenti pagate sui lavori di Ferscalo Fiorenza a Milano. «Mi hanno massacrato» diceva con amarezza. L«esilio» durava da dieci anni, ed egli non era riemerso a ruoli da protagonista.
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